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→  giugno 28, 2016


E adesso, rifare l’Europa! L’abbiamo sentito dire un po’ da tutti, e già questo desta sospetto. Ma a preoccupare sono gli obbiettivi che vengono indicati e i mezzi che vengono suggeriti per realizzare il vasto progetto.

Rifare l’Europa per “fargliela pagare”: quanto più possibile e quindi quanto più presto possibile, bruciare i tempi del divorzio per eliminare subito i vantaggi che il Regno Unito trae dall’accesso al grande mercato europeo. Un po’ autolesionistica come proposta, dazi e protezionismi costano a chi li impone, e il conto lo pagano i consumatori. E pure arrischiata: nel mondo tira già un’aria di protezionismo, il maggiore aumento mai registrato dal 2009, quando il WTO ha iniziato a monitorarlo, un’aria che diventerebbe un tornado se Donald Trump dovesse vincere le elezioni. Un Paese come il nostro che ha un consistente avanzo della bilancia commerciale dovrebbe piuttosto badare a non essere lui a pagare.

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→  maggio 28, 2016


Dovesse Trump diventare presidente degli Stati Uniti, gli altri Paesi della Nato dovranno “pagare quanto devono “ e se non lo fanno “dovranno difendersi da soli”. Gli USA spendono per la difesa il 3,5% del PIL, i Paesi europei in media 1,4%, l’Italia lo 0,95%. Quasi nessun Paese d’Europa riuscirebbe a far fronte a spese di questa entità rispettando i vincoli di bilancio, dovrebbe intervenire Bruxelles: e c’è da chiedersi se i Nato-bond varranno a superare i veti che finora hanno bloccato gli eurobond. Per stimolare investimenti, meglio i soldi dell’Unione spesi per comprare gli elicotteri o i soldi della BCE sparsi dagli elicotteri?

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→  maggio 14, 2016


«Tieni sempre un biglietto da 1.000 franchi nel portafoglio», mi diceva mio padre, che aveva vissuto due guerre mondiali, vent’anni di dittatura, ed era scampato agli orrori della persecuzione. Franchi svizzeri intendeva: l’euro non c’era ancora, e il marco tedesco non era proprio una cosa che si associava alla salvezza. Oggi in Europa siamo fiduciosi che le vicende del secolo breve siano consegnate ai libri di storia; ma in giro per il mondo ci sono paesi con governi autoritari, divisi da guerre interne, con monete dall’incerto valore e non convertibili, con fallimenti bancari: in quei Paesi dollaro, euro, sterlina sono la principale riserva di valore. Tant’è che il biglietto da 100 dollari gode di un aggio rispetto a quelli di taglio inferiore, e le banconote da 50 pound costituiscono un quinto delle sterline in circolazione. Il consiglio paterno mi è tornato alla mente leggendo che la Bce ha deciso di non stampare più banconote da 500 euro. I biglietti di banca si consumano, si distruggono, finiscono dentro i portafogli, e quindi i “bin Laden” (il nome con cui è conosciuto il 500 euro) usciranno dalla circolazione. È vero che il compito della Bce è fornire moneta all’economia dell’eurozona: ma l’Europa non può disinteressarsi di quello che succede nei Paesi problematici ai suoi confini, e se lo fa, ci sono le ondate dei migranti a ricordarlo. È vero anche che c’è la moneta elettronica: ma governi illiberali esistono, e difendersi dagli hacker può essere più difficile che proteggersi dai ladri.

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→  febbraio 20, 2016


«C’è un potere oscuro in Lussemburgo, crea competenze nuove per l’Unione Europea, ora pretende la sottomissione dei giudici che proteggono la costituzione». Sono volate parole pesanti qualche giorno fa a Karlsruhe dove era riunito il secondo Senato, come è chiamata la Corte Costituzionale tedesca. Quelle riportate sono dell’avvocato di quanti avevano presentato ricorso contro la Bce, sostenendo che questa, annunciando i programma Omt era andata oltre il suo mandato, e così aveva fatto non politica monetaria, ma politica economica, che invece resta responsabilità degli Stati.

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→  settembre 18, 2015


Domenica in Grecia, in Ottobre in Portogallo, in Dicembre in Spagna: tre votazioni in Europa in poco più di tre mesi. Quattro, se contiamo le primarie nel Labour inglese. L’attenzione, oltre che ai risultati in sé, è alle nuove formazioni di sinistra estrema, e a come potranno influire sulla classica contrapposizione popolari-socialisti.

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→  settembre 17, 2015


articolo collegato di Stefano Firpo

Dopo una lunga e incomprensibile damnatio memoriae è stata finalmente riconosciuta da più parti l’esigenza di tornare a parlare di politica industriale nel nostro paese. Questo stesso giornale ha meritoriamente aperto una discussione sul tema animata da un approccio pragmatico e per questo credo sia opportuno mettere a fuoco alcuni punti utili per un dibattito costruttivo. E’ ormai assodato che il motore della crescita, della competitività, della stessa sostenibilità sociale e finanziaria di un paese risieda nello stato di salute della sua industria ed è ormai assodato che senza ragionare con serietà su questo campo un paese non potrà mai crescere come potrebbe. Oggi abbiamo una grande occasione, grazie anche a un contesto internazionale favorevole, e il nostro governo ha la possibilità di mettere insieme alcune idee per sfruttare il vento favorevole. Andiamo con ordine e mettiamo in fila un po’ di dati per capire da dove possiamo partire. Il settore manifatturiero oggi produce poco meno di un quinto del nostro pil e contribuisce all’80 per cento delle nostre esportazioni, determinando la quasi totalità della spesa privata in ricerca e sviluppo. Un quarto dell’occupazione totale del comparto è direttamente ascrivibile al settore industriale, ma se considerassimo anche i servizi all’industria questa percentuale quasi raddoppierebbe. Grazie al surplus della bilancia commerciale manifatturiera il paese paga la bolletta energetica, sostiene la posizione finanziaria netta garantendo solidità alla nostra posizione debitoria nei confronti con l’estero. In questi anni di crisi il manifatturiero ha pagato un prezzo pesante. Ha perso quasi 25 punti percentuali di produzione, il 17 per cento in termini di valore aggiunto e oltre 400 mila occupati diretti. Il suo indebolimento ha anche contribuito al prolungarsi della crisi stessa, alla sua persistenza e oggi frena quel rimbalzo che stenta a trovare slancio e vigore. La crisi ha di fatto congelato gli investimenti industriali: fino al 2007 esprimevamo una capacità di spesa in linea con quella tedesca, ma oggi investiamo almeno 15 miliardi all’anno di meno della Germania. In queste condizioni la nostra posizione di secondo paese manifatturiero in Europa risulta difficile da mantenere. Il rilancio degli investimenti industriali deve per questo essere al centro degli obiettivi di politica economica. Già, ma come? Per molti anni, prima della crisi del 2008, in Italia si è investito tanto. Purtroppo spesso si è investito male. Gli economisti direbbero che l’efficienza allocativa del capitale nel nostro Paese è stata subottimale. Provando a tradurre si potrebbe dire: troppi capannoni oggi vuoti, capacità produttiva in eccesso e oggi largamente inutilizzata, troppo credito facile che conduceva a investire anche in progetti non remunerativi. La produttività del nostro manifatturiero ne ha risentito ed è entrata in un lungo periodo di deprimente stagnazione. Non basta quindi tornare a investire di più, occorre soprattutto investire meglio, puntando al rafforzamento di quei fattori di competitività che si stanno facendo decisivi in un mondo globalizzato e nell’economia della conoscenza: ricerca e innovazione, digitalizzazione, proiezione internazionale, consolidamento dimensionale. Il paese ha un estremo bisogno di un quadro di politica industriale capace di scongelare gli investimenti in questi ambiti.

Sul fronte dell’innovazione qualche primo segnale importante il governo ha iniziato a darlo. Il credito di imposta alla R&S e il patent box, introdotti nella scorsa legge di stabilità, sono strumenti concreti che introducono un fisco più amico dell’impresa. In particolare di quelle imprese che investono (e che rischiano) puntando su percorsi di crescita sostenibili e duraturi. Anche diversi provvedimenti inseriti nei decreti attuativi della delega fiscale si muovono nella medesima direzione: penso ad esempio alle novità introdotte in tema di cooperative compliance. Sono strumenti che vanno ulteriormente rafforzati e, soprattutto, resi di facile accesso e utilizzo per le imprese. La prossima legge di stabilità dovrà continuare a muoversi lungo il solco dello stimolo agli investimenti e all’innovazione: un buon esempio arriva dalla Francia dove la legge Macron ha introdotto un misura fiscale di accelerazione delle quote di ammortamento degli investimenti industriali.

Sugli altri fronti occorre disegnare una strategia complessiva. L’Italia, a oltre due anni dell’integrazione di Sace in Cdp, non si è ancora dotata di un modello di export bank forte, integrato e competitivo capace di sostenere al meglio la proiezione internazionale delle nostre imprese (fortunatamente cresciuta in modo spontaneo in questi anni).

Sulla digitalizzazione, molti territori a forte vocazione industriale rimangono tutt’oggi scoperti da una decorosa copertura di rete a banda ultralarga e i piani del governo stentano a trovare le coperture necessarie all’infrastrutturazione digitale, soprattutto nell’ingaggio con risorse private. Per tornare a investire servono risorse finanziarie. Politica industriale e mercati finanziari sono come non mai legati. Molte imprese sono ricche di liquidità e attendono solo un segnale di fiducia per tornare a investire in maniera importante. Altre invece, per quanto ancora sane dal punto di vista industriale, sono spesso frenate dai livelli di indebitamento accumulati e non trovano adeguati strumenti per il loro “esdebitamento”, turnaround e rilancio (qui vi è il timore che le cose non miglioreranno dopo le recenti modifiche alla legge fallimentare e all’istituto del concordato). Il sistema bancario a sua volta, a causa di regole prudenziali sempre più stringenti (soprattutto in Europa), non è in grado di fare da indifferenziato magazzino di rischio e di intermediare le risorse con un significativo effetto moltiplicatore sugli impieghi.

Da qui l’esigenza – colta anche a livello europeo con il progetto di una Capital Market Union – di attivare un canale di intermediazione diretto fra il grande risparmio di cui ancora il nostro paese dispone (parliamo di centinaia di miliardi di risparmio che si sta accumulando sia sul pilastro previdenziale che su quello assicurativo) e gli investimenti nell’economia reale. Purtroppo oggi meno dell’1 per cento del nostro cospicuo risparmio privato trova una qualche forma di impiego nel settore industriale italiano. Certo, una parte significativa sostiene il nostro debito pubblico, ma un cifra davvero imponente finanzia gli investimenti di imprese non italiane. Insomma esportiamo il nostro risparmio, quando in molti Paesi avanzati la canalizzazione del risparmio di lungo periodo sull’economia nazionale costituisce un preciso strumento di politica industriale.

L’industria ha poi bisogno di nuovo slancio imprenditoriale. Il nostro capitalismo è anziano e si trova nel guado di delicatissimi passaggi generazionali e manageriali. Sono le nuove imprese ad alto contenuto innovativo quelle che contribuiranno all’occupazione del domani. Il nostro paese si è da qualche tempo dotato di una legislazione di avanguardia per sostenere e diffondere imprenditorialità innovativa: occorre fare di queste prime sperimentazioni positive un modello per una platea ben più ampia di imprese. Si è iniziato a farlo con le pmi innovative ma sarebbe bene proseguire.

Infine occorre attrarre e attivare investimenti e sviluppare nuove iniziative imprenditoriali in quelle filiere – e sono molte – in cui l’Italia gode ancora di significativi vantaggi competitivi. Nella filiera della componentistica automotive, per esempio, ci sono tutti gli spazi per attrarre un secondo produttore auto, lungo il solco tracciato con l’accordo con Audi-Lamborghini che ha portato un significativo investimento in R&S e una nuova linea di produzione.

Nelle tante filiere dell’industria agroalimentare ci sono spazi di crescita ancora inesplorati. Il successo di Expo ce lo sta dimostrando ogni giorno. E’ prioritario lavorare al rafforzamento della capacità distributiva internazionale dei nostri prodotti. Ma soprattutto non si può pensare di tenere il nostro Made in Italy alimentare, riconosciuto e apprezzato dal consumatore per la sua straordinaria qualità, costantemente impegnato in una battaglia di retroguardia con il mondo agricolo sull’origine effettiva della materia prima. Così, altro che sostenere il Made in Italy: non esisterebbe il caffé italiano, non esiterebbe il cioccolato italiano, non esisterebbe la pasta italiana.

Ci sono spazi per consolidare le nostre filiere nell’aerospazio, nella microelettronica, nella meccanica strumentale, nella cantieristica, nella produzione sostenibile e nella distribuzione smart dell’energia, nell’information technology portando avanti progetti di investimento in chiave Industry 4.0, rendendo più strategici ed integrati i rapporti fra i capi filiera, le aziende pivot e la catena di fornitura e sub-fornitura. Si possono cogliere tanto le opportunità di efficientamento incrementale dei processi produttivi, quanto le possibilità rivoluzionarie di ripensamento vero e proprio dei modelli di business che si stanno aprendo grazie all’impetuosa trasformazione digitale del manifatturiero, all’utilizzo estensivo dei dati – un vero e proprio nuovo fattore di produzione – per gestire le fabbriche in tempo reale, per intercettare e persino anticipare i bisogni dei clienti, per integrare sempre più prodotti e servizi post vendita.

Oggi, finalmente, un segno positivo sta di fronte ai dati dell’economia. Non accontentiamoci. Il Paese merita di esprimere più fiducia nelle sue capacità e potenzialità. È possibile tornare a disegnare un’azione di politica industriale senza che questo comporti un maggiore interventismo dello Stato nell’economia. Occorre creare tutte le condizioni affinché si torni ad investire di più e soprattutto meglio, abbandonando la stagione degli incentivi distribuiti un po’ a tutti e premiando i comportanti virtuosi di quei tanti imprenditori che innovano e rischiano, che competono su mercati sempre più lontani e complessi, che modernizzano processi e prodotti, che costruiscono progetti per lo sviluppo competitivo nelle nostre filiere industriali.