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→  novembre 30, 2021


Caro Direttore, se, come lei scrive nel suo editoriale del 28 novembre, il Governo Prodi nel 1997 vendette Telecom Italia per l’equivalente di 11,82 miliardi di euro, e oggi il fondo Kkr può comprarne il 100% per 10,8 miliardi, la prima cosa che se ne deduce è che, contrariamente a quanto si sente ripetere in questa come in altre occasioni, lo Stato è stato un buon venditore. Non c’è stata nessuna svendita: i privati hanno pagato, a caro prezzo, con beneficio dell’erario. E non solo. E’ passato quasi un quarto di secolo, e di cose ne sono successe. Allora, grazie alla liberalizzazione imposta dall’Europa, a scalfire il monopolio Telecom era comparsa Omnitel. Nessuno poteva immaginare che l’Italia sarebbe diventata un mercato estremamente concorrenziale, dove sono attivi una pluralità di operatori, con le tariffe tra le più basse in Europa, con un’autorità di regolazione e controllo, istituita per poter privatizzare, che si sarebbe dimostrata molto severa verso l’exmonopolista. Se quest’ultimo fosse rimasto un’impresa pubblica, è improbabile vi sarebbe stato il medesimo zelo.

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→  novembre 24, 2021


Per ora non l’ha fatto. Se proprio la vuole, faccia un’offerta e la comperi. Così si fa in un’economia di mercato

Il governo Draghi, per bocca del ministro dell’economia, si è rallegrato perché un fondo Usa vuole investire in Italia, e non in un’azienda qualsiasi, ma in una che avrà un ruolo di primo piano nella transizione digitale da cui dipende il nostro futuro di Paese industriale. Non era scontato: due anni fa, al Consiglio di Amministrazione di TIM riunito per esaminare l’offerta di KKR di acquistare una quota di FiberCop, la società della rete costituita da TIM e Fastweb, arrivavano le telefonate dal Governo allora in carica.

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→  novembre 10, 2021


Concorrenza e piattaforme digitali

«Salvo prova contraria, si presume la dipendenza economica nel caso in cui un’impresa utilizzi i servizi di intermediazione forniti da una piattaforma digitale che ha un ruolo determinante per raggiungere utenti finali o fornitori, anche in termini di effetti di rete odi disponibilità dei dati». Così. l’art. 29 inserito nella legge sulla concorrenza: che fin dal suo inizio evidenzia gravi criticità.

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→  ottobre 29, 2021


“Le Fondazioni possono detenere partecipazioni di controllo solamente in enti e società che abbiano per oggetto esclusivo l’esercizio di Imprese Strumentali”. È singolare che, con tutto quello che è stato scritto in questi giorni sulla vicenda Montepaschi Unicredit nessuno, a meno di mia distrazione, abbia ricordato che cosa recita il comma 1 art 6 del decreto legislativo 17 maggio 1999 n. 153. Perché la Fondazione, frankensteiniana creatura della legge Amato per essere proprietaria della banca senese, ha posseduto la maggioranza assoluta delle azioni del Monte dei Paschi di Siena per più di due decenni, fino al 2012. Posso testimoniare che in tutto quel tempo l’anomalia venne più volte rilevata e segnalata: purtroppo nonostante le estenuanti discussioni su quella legge, a nessuno venne in mente di mettere la norma di chiusura: e se, avendo una partecipazione di controllo, non vogliono disfarsene, che cosa succede? Nulla: a Siena la Fondazione ha continuato a nominare gran parte del consiglio di amministrazione della banca, compreso il presidente e l’amministratore delegato. E siccome a Siena la nomina dei vertici della Fondazione erano appannaggio della politica locale, la Banca Monte dei paschi di Siena ha continuato ad essere pubblica fino a vent’anni fa. Pubblica non nel senso che era proprietà del Ministero dell’Economia, ma nel senso che veniva gestita nella logica e seguendo gli interessi della politica: E si sa quale “politica” fosse dominante a Siena, e meglio di tutti dovrebbe saperlo Enrico Letta, senatore recentemente eletto in quel collegio. Quei politici sono nei ritratti di famiglia del partito di cui è segretario. Quando lo si sente porre come condizione per la vendita il conservare la “senesità” dell’Istituto, vengono, a esser gentili, i brividi: che egli lo sappia o che non lo sappia a rovinare la banca sono state quelle gestioni. Quella è stata la “senesità” e da ben prima dell’acquisizione di Antonveneta nel 2007. Chi pensa ad un futuro pubblico della banca, dimentica che essa è stata sempre pubblica: locale o statale, la logica è sempre la stessa: per il lignaggio di quella che, come stucchevolmente si ripete, è la banca più antica del mondo, come per la livrea di Alitalia. Conta solo quanto costano oggi e quanto potrebbero fruttare domani.

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→  giugno 22, 2021


A far ripartire le aziende dopo la pandemia non basta il credito bancario: perché riprendano a investire è necessario che venga ricostituito il capitale bruciato. Per le grandi aziende, è perlopiù possibile fare il necessario aumento di capitale senza che vengano rovesciati gli assetti proprietari. Invece per le PMI sorgono problemi, rilevanti per le maggiori, le cosiddette multinazionali tascabili. I loro problemi sono problemi per il Paese: perché è grazie a loro che il Paese è riuscito a stare a galla durante la ricadute europee della bolla dei subprime, e poi a crescere sui mercati esteri. I loro proprietari o ne sono anche i gestori o ne controllano, anche gelosamente, gestione e strategie: un aumento di capitale rischia di turbare equilibri delicatissimi. Per questi motivi l’Europa raccomanda che questi avvengano con strumenti di “quasi-equity”. Pio desiderio, perché chi mette soldi in un’azienda deve a sua volta rispondere a chi glieli ha affidati, e quindi deve avere qualche potere di controllo su gestione e strategie. C’è dunque un ampio “non detto” tra vecchi e nuovi azionisti, il loro rapporto si basa largamente su fiducia, immagine, storia passata e progetti futuri.

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→  giugno 18, 2021


Autostrade a Cdp: le aziende del primo capitalismo oggi sono tutte pubbliche. Peccato

È finita così: la maggioranza assoluta di Autostrade per l’Italia è della Cassa depositi e prestiti (Cdp). Non è stato un esproprio per pubblica utilità, è stata la vendita forzata a un soggetto indicato dal governo. Mai più i Benetton in Autostrade, aveva sentenziato Toninelli: ma l’esito era condiviso dalla quasi totalità delle forze politiche, e non osteggiato, a volte esplicitamente, da larga parte dell’opinione pubblica, imprenditoria privata compresa. Si era suggerito che a comperare fosse il Mef, ciò che avrebbe più facilmente portato a soluzione il vero problema, cioè l’inadeguatezza del concedente a controllare il concessionario; si sarebbe anche potuto frazionare la rete e introdurre concorrenza per confronto. Il premier avrà pensato, non senza ragione, che, con il Pnrr e le riforme, non era il caso di mettere altra legna al fuoco.

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