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→  maggio 27, 2009

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da Peccati Capitali

“Only the paranoids survive” era il motto di Andy Groves, il fondatore di Intel, primo produttore mondiale di microprocessori, i motori di computer e cellulari. Ma potrebbe essere il motto di Silicon Valley, quel concentrato di imprese dove le idee circolano vorticosamente, e ha successo chi arriva prima, conquista una testa di ponte nel mercato, la allarga innovando, tutti con la paranoica ossessione che ogni giorno può nascere qualcuno che ti detronizza con un’idea migliore.

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→  gennaio 25, 2009

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Lettere contemporanee

di Giuliano Amato

Ha assolutamente ragione il Presidente Obama quando dice che non basta creare nuovi posti di lavoro, ma occorre dare «nuove fondamenta all’economia». Non vorrei però che negli entusiasmi suscitati da questa sua affermazione si infilasse anche la voglia di tornare al vecchio, una voglia già sperimentata in altre situazioni di crisi e servita allora più a prolungarle che a risolverle. Separare subito il grano dal loglio nella ricerca del nuovo mi pare quindi essenziale.
Di nuove fondamenta ha certo bisogno l’economia americana, nella quale per prima ha preso corpo quell’abnorme espansione delle attività finanziarie, che sono arrivate a generare oltre il 40% dei profitti, hanno schiacciato sotto i debiti l’economia reale e hanno reso laceranti le diseguaglianze di reddito. E di nuove fondamenta hanno bisogno anche gli altri, noi compresi.

Dobbiamo valorizzare davvero i fattori da cui dipende la crescita della nostra produttività e non farne oggetto soltanto dei nostri ormai stucchevoli convegni sul tema.
Ma la dinamica stessa della crisi e gli interventi che sta suscitando non possono spingere oltre la domanda di cambiamento? Oggi rischiano di fallire insieme imprese efficienti e imprese inefficienti e per evitare i costi sociali dei due fallimenti si interviene massicciamente con aiuti di Stato oppure si autorizzano fusioni (magari per legge, come si è fatto per Alitalia e Airone) che in condizioni normali sarebbero invece proibite. Interventi transitori, si dice. Ma dei benefici della concorrenza, anni addietro sulla bocca di tutti, oggi non parla nessuno. E c’è anzi chi comincia a chiedersi se davvero ne abbia portati di benefici e se della revisione critica a cui assoggettiamo il Washington consensus con il ventennio che ne è seguito non debba far parte, senza sconti, lo stesso fondamento concorrenziale che abbiamo voluto generalizzare in ogni settore dell’economia. La questione dunque è già posta e sarebbe perciò un errore non affrontarla. Se la si affronta ci si accorge che sì, è vero, diverse cose non hanno funzionato in questi anni nei mercati aperti alla concorrenza. Ma davvero la responsabilità è della stessa concorrenza e di ciò che essa ha dato e può dare?

È di sicuro peggiorata la vita di gran parte dei lavoratori occupati in quei mercati, mentre non sono affatto migliorati, in più casi, la qualità e il prezzo dei servizi resi ai consumatori. Quando c’era la rendita del servizio in monopolio, si diceva che se la spartivano, a danno dei consumatori, il gestore e i suoi lavoratori. Ora che la rendita non c’è più, ora che molti lavori prima a tempo indeterminato e ben pagati sono diventati precari e mal pagati, una eguale insoddisfazione accomuna i lavoratori e gli utenti. Basti pensare all’incubo del povero utente con problemi di telefono, che si aggira via filo nei meandri dei call center, avendo come massima soddisfazione quella di parlare alla fine con qualcuno; oppure alla attesa dei bagagli in aeroporto, dove ormai, a parte i furti, non c’è più personale sufficiente per smistarli. Quanto alle tariffe, nei telefoni sono senz’altro diminuite, ma in molti altri servizi, per una ragione o per l’altra, la riduzione non c’è stata.

C’è poi la struttura disfunzionale e bislacca assunta da certi mercati, nei quali l’apertura alla concorrenza ha messo ai polpacci dell’ex monopolista sette piccoli e avidissimi indiani, che hanno corroso la sua forza di mercato, hanno conquistato ciascuno uno spazio troppo piccolo per diventare vitali, col risultato che alla fine, se il mercato non era solo nazionale, loro vivono di stenti (trasferiti peraltro ai dipendenti) e l’ex monopolista si ritrova indebolito e inerme davanti agli ex monopolisti di altri Paesi, meno massacrati di lui. Il caso del nostro mercato aereo, certo con una qualche unilateralità, può essere raccontato anche così. E così del resto lo sintetizza Marcello De Cecco in un paper non ancora pubblicato.

Bene, anzi male, tutto questo è accaduto. Ma è accaduto perché non funzionano la concorrenza e i privati o per difetti da imputare in primo luogo alle azioni con le quali lo Stato o gli enti locali dovevano orientare e regolare i mercati nascenti da liberalizzazioni e privatizzazioni? I privati, si sa, più che all’aureola pensano a far soldi. Ma quel che conta è che nei mercati liberalizzati la mano invisibile basta assai meno che altrove e lo sapeva bene la stessa signora Thatcher, nei cui anni di governo fu proprio il Regno Unito a sviluppare l’esperienza di regolazione più attenta e intensa per far nascere e crescere dei mercati funzionanti al posto dei vecchi monopoli.

Non voglio allargare troppo il discorso e prima di ritornare sull’Italia mi limito a ricordare che dei disastri seguiti alle privatizzazioni in buona parte dell’Est europeo (dagli arricchimenti smodati dei compradores al tasso di mortalità che sarebbe cresciuto fra le migliaia di lavoratori licenziati) giustamente Joe Stiglitz attribuisce la responsabilità alla shock therapy che si volle adottare in assenza di istituzioni statali capaci di governare il passaggio.

E torno all’Italia. Ce la ricordiamo la allegra incoscienza con la quale lasciammo crescere il Far West delle televisioni private dopo che nel 1976 la Corte costituzionale dichiarò legittimo il solo monopolio nazionale e illegittimo quello locale? Lungo anni e anni di totale omissione legislativa e di acquiescenza a ciò che veniva accadendo fiorirono e sfiorirono oltre cento fiori, si consolidò un duopolio di tre reti pubbliche contro tre reti private e poi non si seppe fare altro che sancirlo per legge. È colpa dei privati se finì così? Della liberalizzazione aerea ho già accennato e posso solo aggiungere che ogni italiano ha diritto di chiedersi perché la concorrenza abbia rafforzato British Airways, Air France e Lufthansa e abbia invece indebolito Alitalia. Invito poi chi ne ha voglia a dare una occhiata alla giungla delle discipline che regolano le nostre società aeroportuali, per rendersi conto della impossibilità che da quell’insieme dissennato esca una concorrenza funzionante. E termino con un cenno alla concorrenza che sta per aprirsi nel settore ferroviario, dove c’è un obbligo di servizio universale per le stesse percorrenze medio-lunghe non coperte dalle Regioni, che tuttavia non è regolato ed è solo occasionalmente finanziato. Che Dio ci assista.
Conclusione. La rinuncia alle norme sulla concorrenza fu adottata come medicina anti-crisi all’inizio del New Deal negli Stati Uniti e negli anni 90 in Giappone. Ne vennero benefici sociali a breve termine, che furono però largamente compensati dai danni di lungo termine sul terreno della produttività e dell’efficienza di sistema. Se è vero perciò che c’è molto da rivedere negli ingredienti del Washington consensus, teniamone fuori la concorrenza. E impariamo caso mai a farla funzionare.

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di Carlo Bastasin – Il Sole 24 Ore, 25 gennaio 2009

→  maggio 30, 2008


Cartello a perdere.
Assicurazioni, Antitrust e Scambio d’Informazioni

a cura di Alberto Mingardi
Prefazione di Franco Debenedetti
Rubbettino Editore, 2008
pp. 319


In un libro in cui si parte da sentenze antitrust in questioni riguardanti vari rami assicurativi, per discutere dei principi, teorici, ideologici e politici, su cui si basa l’attività antitrust stessa, e quindi sottoporne a critica i costrutti fondamentali, mercato rilevante, attività collusiva, quello stesso di concorrenza, giungendo infine a mettere in serio dubbio la possibilità di un antitrust che non sia distorcente del mercato; in un siffatto libro non può mancare una considerazione sulla situazione esistente fino a pochi anni fa in un Paese quale il nostro, in cui il 50% delle attività economiche erano intermediate dallo Stato, e di conseguenza per interi settori non aveva senso parlare di mercato e di concorrenza; e sviluppare alcune considerazioni sul ruolo che l’Autorità per la Concorrenza ed il Mercato ha avuto nella più grande trasformazione della nostra economia, vale a dire l’uscita dello Stato da gran parte delle attività finanziarie e industriali che esso gestiva.

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→  marzo 26, 2008

corrieredellasera_logoCosa insegna il caso AUDI

di Massimo Mucchetti

Da sei mesi in qua accadono fatti curiosi. A Londra, la Bank of England nazionalizza la Northern Rock dopo averle prestato risorse ingenti senza le usuali garanzie. A New York, la Federal Reserve assicura con risorse pubbliche il salvataggio della banca d’investimento Bear Stearns a opera della JP Morgan per evitare che la sua insolvenza mandi a picco altre banche sue controparti. A Detroit, la General Motors e la Ford licenziano operai e impiegati con salari alti e protezioni pensionistiche e sanitarie per sostituirli con giovani pagati la metà e senza corporate welfare. In Germania, l’Audi dà un bonus di 5.700 euro ai dipendenti, e non è la sola grande impresa a farlo. Sono episodi legati a circostanze specifiche, ma riletti in sequenza sembrano declinare la crisi dell’arciliberismo. Nel suo «Supercapitalism», che l’editore Fazi sta traducendo per l’Italia, Robert Reich, già ministro del Lavoro nella prima presidenza Clinton, sostiene che la supremazia del consumatore finisce per mettere in crisi il cittadino. La concorrenza senza vincoli determina la ritirata del diritto, figlio della politica, a favore di una contrattazione sempre più parcellizzata, nella quale prevale il più forte e la rappresentanza del lavoro dipendente viene sopportata come un cartello residuale. Nella pubblica amministrazione e nei monopoli, in effetti, gli insiders costituiscono spesso corporazioni di fatto. Ma nei settori esposti alla concorrenza gli interessi delle persone si manifestano diversamente. La ristrutturazione dell’industria automobilistica americana è l’esempio classico di quanto costi l’ aumento della concorrenza derivante dalla globalizzazione. E di come questo prezzo venga caricato sulle spalle di lavoratori che credevano di far parte della classe media, architrave delle democrazie. Detroit fa emergere le schizofrenie del cittadino lavoratore. Come produttore, questo cittadino cerca il salario migliore. Come sottoscrittore del fondo pensione, può aver interesse al licenziamento di altri produttori se così salgono le quotazioni dei titoli nei quali il fondo investe per pagargli la pensione domani. Come consumatore, desidera merci e servizi ai prezzi più convenienti, ma non avrà nessuna soddisfazione a vedere scaffali pieni e auto coreane a buon mercato se non ce la fa più a star dietro alle offerte perché, come scrive Reich, al netto dell’inflazione prende la stessa paga oraria di trent’anni prima, ha già rinunciato a 15 giorni di vacanza per arrotondare, la moglie lavora, ha il mutuo, la casa in pegno alla banca, e magari teme pure di perdere il posto. La nuova popolarità del protezionismo non deriva da un errore della storia, ma dai limiti di quello che Giulio Tremonti chiama mercatismo.

Può essere che anche in Italia i dazi, ancorché calibrati, difendano la manifattura di 5 anni fa e non quella attuale che ha imparato a fare i conti con la Cina. Può essere che l’invocazione di un governo sovranazionale della globalizzazione suoni meglio se fatta da un euroentusiasta anziché da un euroscettico. Può essere tutto. Ma può bastare la pedagogia liberista o non serve invece una politica che ricomponga l’Io diviso del cittadino nell’ età della globalizzazione? Chi è sensibile alle sofferenze del mondo può accettare sacrifici, meglio se provvisori, quando l’ apertura dei mercati e le nuove tecnologie offrano occasioni di riscatto a centinaia di milioni di persone. Ma è difficile imporre un prezzo se non è ben ripartito. Negli Usa dove la religione del Pil si è celebrata anche sull’ altare dei subprime, la disuguaglianza è a livelli record. Nell’ Italia della crescita stenta, come la definisce Draghi, i salari restano al palo, mentre i guadagni di top manager e capitalisti volano. Si dice sia il mercato dei migliori, ma forse è soltanto il circolo collusivo al vertice della piramide sociale. E’ in tale contesto che si scopre il vero volto della più globalizzata delle attività economiche, quella bancario-finanziaria: non è la più concorrenziale, e nemmeno la meglio organizzata come si è raccontato fin qui per giustificare i fasti della sua gerenza, ma la più protetta perché non corre il rischio di fallire. E perché a pagare il conto sono i contribuenti, i dipendenti e i soci (fra cui i fondi pensione), assai meno il vertice che conserva retribuzioni, vecchie stock options, consulenze e commissioni fondate su gestioni di cui ora pagano il fio soprattutto gli altri. Se l’ economia in generale rischia una selezione rovesciata con il protezionismo, lasciar fare al capitalismo finanziario e abbandonare a se stesso il lavoro minaccia la coesione della società. Le soluzioni non sono facili per nessuno. Ma, in fondo, il caso Audi qualcosa insegna. La società tedesca paga un premio ai dipendenti per due buone ragioni. La prima è perché guadagna bene grazie ad automobili eccellenti prodotte in modo efficiente, segno di un sistema che sa rinnovare la propria vocazione industriale anche per effetto delle politiche pubbliche. La seconda è perché nel consiglio di sorveglianza dell’ Audi siedono i rappresentanti dei lavoratori: non perché abbiano investito nelle azioni della ditta, ma perché lo stabilisce la legge. Quando Nicolas Sarkozy auspica l’ equa tripartizione del valore aggiunto tra capitale, lavoro e fisco dimostra che anche per un francese di destra la sfida della cittadinanza passa attraverso un’ inversione di tendenza nella redistribuzione. L’ Audi aggiunge che la redistribuzione è tanto più solida quanto più potere e responsabilità sono condivisi per decisione democratica dei cittadini.

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La memoria corta di chi invoca barriere
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 28 marzo 2008

→  maggio 24, 2007

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da Peccati Capitali

Ci sono compiti che lo Stato decide di sottrarre all’azione del Governo, dei Ministeri e della Pubblica Amministrazione, e di affidarne l’attuazione alla competenza di Autorità indipendenti. L’esempio più importante è la tutela della concorrenza. Per la Costituzione, questo è un compito dello Stato, l’art. 117 lo elenca subito dopo politica estera e difesa, e prima di leggi elettorali e sicurezza; lo Stato, per garantire interventi imparziali e tecnicamente corretti, delega questo compito all’Antitrust.

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→  novembre 14, 2006

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La nuova legge considera la pubblicità l’unica fonte d’introito. E così taglia il fatturato del gruppo di Cologno

È raro che chi scrive per criticarti, ti offra papale papale le parole per darti ragione. Ma che gli articoli siano due, di due diversi autori, su due punti diversi, è eccezionale.

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