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Archivio per il Tag »Alberto Bisin«

→  marzo 24, 2020


di Alberto Bisin, Natale D’Amico e Franco Debenedetti

Il lock down impone a tutti grandi sacrifici, lo reggiamo solo perché è evidente a chiunque che, in questa situazione, è il solo rimedio possibile. Ma l’ansia crescente con cui leggiamo il bollettino di guerra, non ne è la conseguenza inevitabile: dipende dalla carenza di analisi scientifiche per capire e spiegare cosa sta succedendo. E non può essere diversamente: perché manchiamo di dati oltre ai numeri, giornalieri e progressivi, di contagiati, guariti, morti. Certo di questo virus anche gli esperti conoscono poco, come sceglie le sue vittime, come le assale, come muta, se chi guarisce si può considerare immunizzato. Ma ci sono fatti che conosciamo o altri che potremmo conoscere se solo avessimo dati accurati su cui basare analisi attente.

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→  luglio 7, 2015


Articolo collegato di Alberto Bisin

IL NETTO “no” nel referendum in Grecia ha il merito di ben chiarire i termini della questione. Il “sì” avrebbe portato al massimo ad una umiliante concessione da parte degli organismi internazionali creditori fino alla prossima rottura tra controparti.
Come molti osservatori hanno sostenuto, non senza retorica, il risultato del referendum va rispettato, indipendentemente dal proprio giudizio su quanto appropriato sia stato ricorrere alla consultazione popolare. È chiaro che i cittadini greci hanno votato per non accettare la proposta di accordo sul tavolo negoziale. Non è chiarissimo però con quale mandato il governo Tsipras potrà continuare i negoziati con gli organismi internazionali creditori. Credo sia ragionevole sostenere che l’obiettivo di un eventuale futuro accordo non possa mancare di prevedere una ristrutturazione del (leggi, default ordinato sul) debito greco. Null’altro sarebbe accettabile agli elettori greci.
Per capire cosa questo significhi bisogna fare un passo indietro. Dalla metà anni ‘90 il settore pubblico greco ha speso più di quanto non abbia raccolto a mezzo di entrate fiscali, finanziando l’eccesso di spesa a debito. A situazione finanziaria apparente (prima di allora conti offuscati se non truccati non ne avevano permesso una chiara immagine), nel 2010, la Grecia era insolvente e ha avuto bisogno di aiuti e nuovi prestiti. Questi sono stati utilizzati nella gran parte per ripagare i creditori, soprattutto banche tedesche e francesi. Il debito greco è passato quindi da banche private a organismi internazionali. Nel 2012 la Grecia ha avuto bisogno di un nuovo giro di aiuti, che in questo caso sono andati al paese. Anche questi aiuti, che prevedevano la vendita da parte di varie attività che non è mai avvenuta, e che erano condizionati a riforme microeconomiche attuate solo in minima parte, non hanno avuto gli effetti desiderati. Il rifiuto di mettere in cantiere le riforme (mercato del lavoro, pensioni, settore pubblico) ha costretto i governi che si sono succeduti a operare soprattutto su dipendenti pubblici e tassazione. Hanno sì ridotto notevolmente il disavanzo primario (al netto della spesa per interessi), ma lo hanno fatto strozzando ogni possibile ripresa economica. Di qui, credo la rabbia dei greci che prima hanno votato Syriza e poi lo hanno supportato votando no al referendum.
Credo quindi che Tsipras abbia ragione a ripetere che il paese è insolvente e che il debito vada ristrutturato. Ma a mio parere su una cosa ha ragione invece l’ala dura tedesca (ad esempio Schauble, per intenderci): alla fine questo debito ha finanziato la spesa pubblica corrente della Grecia per più di un decennio; la decisione di non pagarlo è naturalmente legittima, ma la Grecia deve prendersi le proprie responsabilità, non è più possibile finanziare politiche assistenziali. Disturba molto che la ristrutturazione avvenga sulle spalle dei contribuenti europei, ma a questo ci hanno portato l’assunzione di debito da parte degli organismi internazionali creditori e il rifiuto da parte della Grecia di operare le riforme necessarie.
Non resta quindi che ristrutturare il debito e chiudere i canali di finanziamento pubblico alla Grecia. Che questo comporti o meno una uscita della Grecia dall’euro non è chiaro. Sarebbe bene per il paese evitarlo. Una strada potrebbe essere quella di pagare i dipendenti pubblici, i creditori, e i pensionati, almeno in parte con una moneta parallela, che sarà presto svalutata ma che permetterebbe forse alla Grecia di evitare un catastrofico ritorno alla dracma con annessa uscita da euro e forse anche dall’Unione.
Ora sta all’Ue evitare nuove inutili trattative per scongiurare la ristrutturazione del debito. Che tutta la retorica sulla democrazia di questi giorni abbia un senso: gli elettori hanno votato per ristrutturare il debito; che così sia. Lo stesso Tsipras proverà ad utilizzare il potere contrattuale del supporto popolare per ottenere nuove trattative che comportino una minima ristrutturazione. Questo va evitato a mio parere perché porterebbe a nulla, solo estenuanti negoziazioni. Per trattare bisogna avere fiducia reciproca e il referendum ha reso chiaro che una buona maggioranza dei greci questo tipo di trattativa non la vuole. È importante invece che nuove negoziazioni mirino a evitare che la ristrutturazione del debito diventi un disordinato default. Infine, la Grecia affronterà probabilmente momenti molto difficili. Sarà necessario aiutare il paese in situazioni di emergenza sociale.
Ma la cosa più importante è che la Ue si metta a lavorare per definire un efficiente processo istituzionale per l’uscita controllata dall’euro di paesi insolventi. No, la soluzione non è più Europa, come imboniscono ad ogni occasione i burocrati europei, nè Eurobond, nè una Unione Fiscale. Tutto questo può funzionare in astratto ma non ancora in una Europa che, come stiamo sperimentando, è composta da paesi con culture, norme di convivenza sociale, istituzioni, così diverse da rendere comuni ed accettati comportamenti strategici in cui un paese si appropria di rendite a spese degli altri. C’è bisogno di istituzioni economiche che evitino quanto possibile la definizione dei contenziosi in sede politica. I mercati non funzionano sempre, ma in questo contesto tendono a reagire rapidamente a politiche fiscali irresponsabili con aumenti dei tassi che inducono i paesi ad un ritorno all’ordine e alla responsabilità.

→  febbraio 24, 2009

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di Alberto Bisin

In questi giorni si parla sempre più con insistenza di nazionalizzare le banche. Negli Stati Uniti hanno preso posizione a favore di una qualche forma di nazionalizzazione una gran parte degli economisti, sia keynesiani che liberisti, da Paul Krugman ad Alan Greenspan. Ma anche in Italia grande eco è stata data alle parole del presidente del Consiglio, che sembravano voler preparare il Paese a una discussione sulla questione. Purtroppo la parola «nazionalizzazione » genera reazioni emotive violente: evoca il sol dell’avvenire in alcuni e la collettivizzazione forzata e i kulaki in altri.

Per comprendere di cosa si stia discutendo è necessario tornare alla razionalità economica. Negli Stati Uniti quando si parla oggi di nazionalizzazione delle banche si intende la seguente operazione finanziaria.

Il Tesoro acquista una quota di maggioranza del capitale di alcune grosse banche in difficoltà, scorpora le attività tossiche dai loro bilanci, e infine favorisce l’immissione nelle banche stesse di capitale fresco privato, a nuovi prezzi di mercato. La nazionalizzazione è in effetti un controllo temporaneo delle banche, per favorirne la ricapitalizzazione privata: una pura operazione di mercato che si può concludere brevissimamente, nel giro settimane o mesi, non anni. Se il prezzo a cui il Tesoro acquista le partecipazioni nelle banche è inferiore al prezzo a cui le vende alla fine dell’operazione, i contribuenti ne ricevono un profitto. Coloro che si oppongono a questa operazione, come ad esempio Francesco Giavazzi sul Corriere della sera di ieri l’altro, argomentano che i prezzi di mercato cui il Tesoro acquisterebbe oggi sono troppo bassi, inferiori al «valore reale» delle banche stesse. E che quindi il governo dovrebbe sì acquistare, ma a un prezzo sopra mercato. Ma è sempre pericoloso in economia distinguere il «valore» dal prezzo di mercato: le banche sono quotate in Borsa; se gli azionisti pensano che esse siano sottovalutate non hanno che da comprare nuove azioni, invece di vendere quelle che già possiedono come stanno facendo. Nessuno gli vieta di farlo. Perché invece costringere i contribuenti a pagare un prezzo superiore al mercato e così sussidiare gli azionisti delle banche?

Su queste colonne ho preso posizione contro le politiche di stimolo fiscale keynesiane, contro la sindacalizzazione della scuola e dell’università, contro la «nazionalizzazione » di Alitalia (questa sì una nazionalizzazione, anche se presentata come una privatizzazione). Non sono certo uno di quelli che pensano che questa crisi segni la fine del capitalismo e che sia finalmente giunto il momento eroico del socialismo. Ma l’operazione finanziaria che i detrattori chiamano «nazionalizzazione » è l’intervento che mi pare più desiderabile oggi dal punto di vista della razionalità economica.

Ciononostante, la «nazionalizzazione» delle banche comporta un problema fondamentale: manca la garanzia che il controllo del Tesoro sia davvero temporaneo. Questo è un problema perché lo Stato è pessimo banchiere, perché la politica fatica a rilasciare il potere, e perché poche attività economiche concedono più potere che non il controllo dei mercati finanziari. Nel caso degli Stati Uniti, Paese con un sistema politico aperto, un’economia di mercato ben sviluppata, e una larga parte dell’opinione pubblica dalle provate preferenze anti-stataliste, non c’è molto da preoccuparsi. Non è così per l’Italia, purtroppo. A differenza di quella americana, infatti, l’economia italiana è caratterizzata da poco mercato e molte rendite. E l’opinione pubblica e la classe politica del nostro Paese si distinguono in una sinistra statalista e una destra corporativista.

L’Italia ha anche una lunga tradizione di controllo politico dei mercati finanziari e un diretto precedente storico: la nazionalizzazione «temporanea» delle banche negli Anni 30, che ci ha portato l’Iri e l’Imi fino agli Anni 90. Proprio a questo precedente storico si può ricondurre tanta parte dell’arretratezza economica italiana prima e dopo la guerra. Ma l’esperienza fallimentare del ruolo dello Stato nello sviluppo industriale in Italia, attraverso anche il controllo delle banche, non pare aver generato sufficienti anticorpi nell’opinione pubblica e nella classe politica, nemmeno in quella «liberale». Venerdì scorso ad esempio sono apparsi su Libero due articoli fortemente elogiativi dell’esperienza delle nazionalizzazioni delle banche degli Anni 30, con annesso accostamento di Berlusconi a Mussolini.

Non oso nemmeno pensare che sia l’esperienza di Beneduce e dell’Iri che il presidente del Consiglio ha in mente quando parla di nazionalizzare le banche.Ascanso di equivoci, poiché «a pensar male si fa peccato, ma…», sarebbe bene che ogni operazione finanziaria di questo tipo, in Italia, fosse accompagnata da chiare garanzie contrattuali sulla temporaneità del controllo di Stato. Dormiremmo meglio la notte.

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