Sulla giustizia la sinistra dovrebbe smetterla di caricare a testa bassa

dicembre 10, 2001


Pubblicato In: Giornali, Il Foglio


La questione giustizia è intrecciata, da almeno dieci anni, alle più rilevanti vi­cende politiche; occupa quotidiana­mente pagine di giornale; interessa personalmente milioni di cittadini. E invece nelle mozioni congressuali dei Ds la questione ha un ruolo secondario: nella mozione Fassino è al quindicesimo posto, in quella Morando è menzionata solo per il funzionamento del­la macchina giudiziaria.

Nella questione giustizia c’è l’aspetto programmatico: la necessaria riforma del rap­porto del potere giudiziario con i cittadini e con il potere politico. E c’è l’aspetto politico: la presenza, nel nostro schieramento, e nella nostra base elettorale, di un giustizialismo giacobino, che condiziona le nostre decisioni politiche e le alleanze. Due questioni distin­te, ma intimamente collegate; senza avere fatto i conti con il giustizialismo ogni tentati­vo di affrontare la questione giustizia è de­stinato a fallire.

Esemplare in proposito è il caso del falso in bilancio, il capitolo più controverso della riforma del diritto societario. Quando usci­rono le prime indiscrezioni sulle proposte della Commissione Mirone, insediata dal Mi­nistro Flick durante il Governo Prodi, ci fu una levata di scudi, tanto da condizionare la versione finale della Mirone nonché il dise­gno di legge Fassino, che non fu fatto appro­vare dall’aula. Contro la versione proposta da Berlusconi noi abbiamo proposto come emendamenti gli articoli del Ddl Fassino. Il risultato netto è che ci siamo fatti respingere come emendamenti i testi, identici alla vir­gola, che avevamo avuto quasi un anno per approvare come legge.

Anche sulla chiusura della vicenda di Tan­gentopoli, la proposta avanzata da Flick of­friva ampie garanzie, risolveva gli ultimi re­sidui del terrorismo, e pure il caso Sofri: ma fu bloccata da indiscrezioni sapientemente fatte filtrare da Palazzo Chigi.

Infine il problema del conflitto di inte­ressi, terreno d’elezione dei giustizialisti, che chiedono soluzioni che vanno dall’ine­leggibilità alla confisca. In fine legislatura si è deciso di fare approvare una norma da un solo ramo del parlamento, con il risulta­to, così, di avere l’inconveniente di appari­re giacobini senza avere i vantaggi di una norma risolutiva.

Certamente con questa maggioranza è dif­ficile legiferare “sotto un velo di ignoranza”, avendo in mente solo l’interesse generale. Berlusconi prende in ostaggio temi che inte­ressano larghi strati di elettorato, e se ne fa scudo a proprio vantaggio; oppure, come nel caso del conflitto di interessi, si invita a caricarlo a testa bassa, ad avanzare proposte che verrebbero solo a rafforzare la sua immagi­ne di imprenditore campione della libertà di iniziative, e fare apparire noi come una sini­stra settaria, anticapitalista e statalista. Ma farsi condizionare dal fenomeno Ber­lusconi sarebbe un errore: la crisi della giu­stizia in Italia non nasce negli anni 90, ma in quelli 70, cioè quando la sinistra, cre­dendo di essere vicina alla spallata nei con­fronti delle forze del governo, individuò nel concreto “pronunciare giustizia” uno stru­mento per approfondire le contraddizioni dell’assetto sia politico che produttivo e so­ciale del nostro paese. Dai pretori d’assalto al processo di Marghera c’è una linea di continuità, che sulla base del “diritto so­stanziale” confonde il dettato della legge con i principi etici superiori, le fattispecie penali con le teorie sui fini ultimi della fi­losofia della giustizia.

Questa linea di continuità è fatta di pre­minenza della vita associativa della magi­stratura, in un’accezione libera da qualsivo­glia vincolo e limite nei suoi pronuncia­menti in materia di politica generale. Si è consolidata quando la giusta necessità di porre riparo al “conformismo giuridico” per il quale il sistema di avanzamenti e asse­gnazioni era incentrato sui giudici della su­prema Corte di cassazione, è poi diventata – con il concorso sia delle forze di governo che di quelle allora all’opposizione – un si­stema di avanzamento automatico senza al­cun residuo principio di responsabilità. In modo particolare per quanto attiene alla magistratura inquirente, neppure il capo della Procura è titolare di alcun potere di indirizzo sui sostituti, e il sollevarli, avocan­do a sé l’inchiesta, è gesto di rottura, risolto nell’esperienza concreta, con “pronuncia­menti” su cui ha sempre finito per pesare l’appartenenza alle correnti della vita asso­ciativa, con controversie interne – fino alla sostituzione dei capi da parte del Csm – sem­pre politicamente risolte. È infine diventata sistema quando il dettato costituzionale, re­lativamente all’autonomia e all’indipenden­za della magistratura, si è concretamente tradotto nel fare del Csm un organo di auto­governo, titolare di veri e propri poteri poli­tici, che, non a caso, ha, più volte, invocato ultimamente anche sulle rogatorie, il Capo dello Stato a “far rispettare” “l’obbligo” del Parlamento di prestare orecchio alle istanze della magistratura associata su indirizzi di politica legislativa.

Di queste premesse si è nutrita l’epopea dei Pm castigamatti, l’ansia di istituire maxi­processi associativi per dare una risposta “giudiziale” a fenomeni sistemici di degrado o arretratezza italiani, si trattasse di tangen­ti o “terzo livello” della mafia; e poi il giusti­zialismo manipulitesco. Una risposta “giudi­ziale” che, per una sinistra di governo, anzi per una forza di governo tout court, è sba­gliata anzitutto perché costruita sulla terri­bile antinomia paese legale-paese reale, che è la faglia su cui da sempre passa il trionfo dell’antipolitica, dell’antiparlamentarismo e antipartitismo.

Una sinistra di governo deve riconoscere tutto ciò e avanzare soluzioni ordinamentali che si affidino alla saggezza e all’equilibrio per contestare la tendenza della destra, dopo il 13 maggio, di regolare i conti facendo tor­nare il pendolo in direzione opposta agli ac­cessi del passato, affrontando i temi più con­troversi: separazione giudici-Pm, finanzia­mento della politica, obbligatorietà dell’azione penale, progressione in carriera. Per non restare nel generico, si suggeriscono qui gli spunti su cui elaborare una proposta.

- Scuola di tirocinio per magistrati e for­mazione ricorrente per cambiamento di fun­zioni (modello francese) come fondamento di una reale separazione di funzione tra Pm e giudicante. Opponendo così alla separazione delle carriere, cui punta da sempre il cen­trodestra, la concreta esigenza di specializ­zazione nel cercare o pronunciare giustizia in un mondo sempre più complesso, dove aver vinto un concorso a 25 anni non può ba­stare in alcun modo per una vita intera.

- Riforma del finanziamento della politica, basata su sistema di forti incentivi fiscali a persone fisiche e imprese, con sistema di pe­ne totalmente diverso e basato soprattutto su interdizione dai pubblici poteri, fino a so­spensione o decadimento dei diritti politici; per il pubblico ufficiale corrotto si decade fi­nanco dalla pensione pubblica a ripartizione.

- Quanto al Pm e alla finta obbligatorietà dell’azione penale, la destra vorrebbe che fosse un politico, Parlamento o Governo, a esprimere gli indirizzi sulle priorità da per­seguire, formula puramente nominalistica se non si affianca a una subordinazione dei Pm al potere politico o centrale, come in Francia, o regionale, come in Germania, o con un Pm elettivo, negli Usa. La sinistra do­vrebbe invece controproporre inquirenti in­dipendenti dalla politica, ma con capi uffi­cio dotati di poteri più penetranti e nomi­nati da un Csm non eletto secondo legge elettorale correntizia.

- Introdurre norme per le quali la posizione del magistrato nell’organizzazione del corpo giudiziario, le funzioni esercitate e il tratta­mento economico, vengano definite attraver­so meccanismi competitivi di progressione in carriera, basati non solo sull’anzianità di servizio, come ora, bensì soprattutto sul merito professionale, accertato con valutazioni articolate con frequenza triennale. Ciò anche al fine di comportare, in relazione alla progres­sione di funzione esercitate, più accentuati li­velli di mobilità, con valutazioni effettuate dai capi degli uffici. Norme altresì che, quanto agli avanzamenti, prevedano che essi siano di­sposti dal Csm su proposta di una commissio­ne interna che, a differenza dell’attuale, veda la parità tra membri togati e non togati.

Una sinistra di governo dovrebbe lanciare una consultazione aperta nell’Associazione nazionale magistrati su questi temi, e proporre alla maggioranza una convenzione nazionale bipartisanper la riforma degli articoli della Costituzione da ritoccare, nonché per la de­finizione delle due-tre leggi di maggior rilievo per la loro attuazione. Non una Bicameralina, ma un lavoro preparatorio di un anno per avviare poi le riforme nei 3 anni che restano della legislatura: senza lasciare alla maggioranza l’iniziativa, né limitarsi a giocare di rimessa

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