Sui costi di ricarica Bersani vi inganna

aprile 5, 2007


Pubblicato In: Giornali, Vanity Fair

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da Peccati Capitali

Il contrasto tra il predicare e il razzolare, tra il rigore esibito in pubblico e la condotta praticata in privato è quello che alimenta gli “scandali” recenti, le foto di Corona, le indagini di Woodcock. Ma assai peggio è il contrario, quando cioè il politico usa la propria immagine “virtuosa” per giustificare provvedimenti “scandalosi”.

È il caso, che qui si vuole “mettere a nudo”, di Pierluigi Bersani, che ha imposto un provvedimento statalista e populista – l’eliminazione del contributo di ricarica dei telefonini – proprio grazie alla fama di liberalizzatore di cui gode. Non c’è governo al mondo – tranne forse Castro o Chavez – che imponga tariffe su un servizio retail liberalizzato svolto da imprese in concorrenza. Meno che meno in un Paese che ha un’Autorità delle Comunicazioni e un’Antitrust, che oltretutto avevano appena concluso, dopo un’indagine congiunta (342/06/CONS), che è vero che i contributi di ricarica introducono opacità per l’utente, che possono dar luogo a pratiche collusive tra concorrenti: ma che sono in sé una legittima forma tariffaria di dual pricing: e avevano avanzato ragionevoli proposte.

Il costo al minuto dei vari piani tariffari è lo stesso con il pre o con il postpagato. Solo quest’ultimo è gravato da una tassa governativa di circa 5 € al mese: dato che l’utente sembra essere sensibile soprattutto al prezzo per minuto, si crea l’illusione ottica che consente agli operatori di applicare alla ricarica un costo circa uguale alla tassa governativa sul postpagato. E tanto insoddisfatti i consumatori non devono essere, se abbiamo il record mondiale di telefonini per abitante.

Il peggio è che, per giustificare di avere agito illegittimamente con la scure della legge su prezzi liberi, si è alimentato l’idea che il contributo di ricarica fosse “iniquo” (il Riformista), una “vessazione contrattuale” (Massimo Riva su la Repubblica), e non, come è, un componente di un costo totale che è il risultato della concorrenza tra imprese, e non fissato né dall’Autorità né – e ci mancherebbe solo più questo – dal Governo, il quale anzi ha semmai sulla coscienza la tassa che ne è l’occasione. E adesso che, ovviamente, gli operatori recuperano i mancati ricavi rivedendo le tariffe, li si accusa, papale papale, di “imbroglio”.

Aver delegittimato le Autorità passa per “una pignoleria di grammatica istituzionale” (Riva). Contro le imprese si è sparsa una diffidenza calunniosa che fa a pugni con una politica di sviluppo economico. Ai consumatori, per cogliere gli effimeri vantaggi del populismo, si è fatto credere che fossero vittime di un sopruso. Un inganno, riuscito anche grazie alla immagine liberalizzatrice di Bersani, dunque un inganno verso chi si fida. Chi così pecca, Dante lo mette nel nono girone dell’Inferno: l’ultimo.

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