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Stato paternalista

Pubblicato il 09/05/2000 @ 17:18 in Giornali,Il Sole 24 Ore


II dibattito pubblico che si è andato sviluppando intorno alla vicenda Umts, gli argomenti usati per difendere il primitivo progetto di assegnazione delle licenze, forniscono interessanti spunti di riflessione. Nel dibattito è possibile distinguere due fasi, una precedente e l’altra seguente la dichiarazione di Amato, che, nel discorso per la fiducia, fissava un limite inferiore — 25.000 miliardi — per le 5 licenze in palio.

Prima dell’annuncio, poche voci — Alessandro Penati, Salvatore Bragantini, Andrea Prat e Tommaso Valletti e il sottoscritto — avevano rotto il sostanziale silenzio che tendeva a coprire un duplice errore: un meccanismo dí assegnazione discrezionale e non di mercato; e un prezzo scandalosamente basso. «È per evitare la colonizzazione da parte degli stranieri» era stato l’argomento addotto dal Ministro Cardinale. Dèjà entendu: si ricorda di averlogià udito quando furono date a Iri Eni e Fiat le concessioni a trattativa privata per l’Alta velocità, proprio quelle concessioni che, di fronte a casi di ribassi anch’essi «scandalosi», il suo collega Bersani ha giustamente deciso di revocare, vedi caso, proprio in questi giorni.
Bene o male — a seconda di quanto delibereranno oggi i ministri interessati — l’irrituale annuncio di Amato ha comunque fatto giustizia di un patto a tavolino diventato imbarazzante. Ma resta il duplice errore concettuale che l’ha prodotto — ignorare i fondamenti dei fatti economici in gioco, e volerli sottoporre allo spadroneggiare della politica — e continua ad inquinare, seppure sotto nuove forme, il dibattito sulla vicenda.
Dopo l’annuncio del Presidente del Consiglio, la tesi della difesa dallo straniero si è tramutata in difesa delle industrie italiane, che crollerebbero — si è detto — se dovessero pagare prezzi di mercato per le frequenze. Invece S&P, che pure ha abbassato il rating delle imprese che si sono assicurate le concessioni, prevede che proprio il prezzo elevato le spingerà a ricercare accordi, e accellererà integrazioni a livello europeo. Noi crediamo di proteggere le nostre imprese con i prezzi fuori mercato dei nostri patti a tavolino, in realtà le sottraiamo all’azione di queste forze, erigiamo una muraglia cinese che le isola da questo processo.
Negli ultimi tempi il duplice errore concettuale — quello economico e quello politico — ha prodotto un singolare argomento: vero, si dice, i prezzi proposti per l’Umts erano bassi, ma bassissimi sono anche i prezzi per le frequenze usate dalla televisione generalista, se si fa l’asta per le une lo stesso trattamento lo si de riservare pure a Rai e Mediaset (il prezzo pagato da Cecchi Gori per acquistare Tmc comprendeva evidentemente anche il pagamento delle frequenze). Il confronto è improponibile per una lunga serie di ragioni tecniche: le imprese hanno già capitalizzato il valore delle licenze anche quando gli attuali utilizzatori sono gli assegnatari originali; l’asta non è un mezzo per inventarsi una nuova tassa, ma lo strumento più idoneo per individuare l’imprenditore capace di fare l’uso più efficiente di un bene scarso; una nuova asta non aumenterebbe la concorrenza tra le TV. Le frequenze per la TV analogica non sono un bene scarso (ci sono in Italia i 700 licenze), il cui valore è riflesso nei bilanci delle aziende che ne sono titolari; giova ricordare che la più importante, la Rai, si salva con il canone e violando sistematicamente la legge che limita le risorse pubblicitarie.
Ma sono i risvolti politici di questi argomenti quelli che interessano ai fini del nostro discorso. Che proprio quelli che trovno motivo di scandalo nei patti che legalizzarono la TV privata, istituiscano un confronto tra quelli e lo scandaloso risultato del patto a tavolino per l’Umts, è motivo di stupore. Ma non stupisce che il partito Rai chieda di farla pagare a Mediaset se Rai ora è verosi­milmente tagliata fuori: infatti il vecchio beauty contest era preor­dinato anche a consentire alla Rai di entrare nel gioco.
La politica rimase tra l’ostile e l’incredulo verso la possibilità di rompere il monopolio televisivo; anziché promossa, essa fu subita e riconosciuta solo nel 1990 come un dato di fatto. Non è molto cambiata rispetto ad allora la mentalità con cui si guarda ai settori avanzati dello sviluppo del business: si vogliono mettere bandierine per limitare il terreno, si vuole decidere chi deve coltivarlo. Se lo stato paternalistico vuole decidere a chi le darà e che uso ne farà, non c’è da stupirsi se poi qualcuno si inventa una sorta di pari opportunità per le frequenze.
C’è dunque da sperare che il Comitato dei Ministri adotti oggi il metodo della gara. Ma rimane il rischio che, a causa del du­plice errore di cui si diceva, se non le frequenze, il ricavato della loro aggiudicazione diventi frumentationes del grano pubblico da distribuire ai clientes. Già si sente parlare dí piani per informatizzare, per diffondere computer, per costruire infrastrutture. Interventi microeconomici che, ben che vada, sono un inutile spreco: non c’è stato bisogno di corsi per imparare a usare il telefonino, o a comperare titoli sulla rete; le autostrade informatiche le costruiscono i privati, quelle del piano Delors sono restate sulla carta. E quanto alla distribuzione di computer come mezzo per incentivarne l’uso, non serve un granché, almeno stando all’uso che ne fanno i Senatori cui pure ne è stato assegnato uno a testa. Per i proventi della gara c’è solo una scelta: ammortamento del debito pubblico, o riduzione dell’Irpeg. Ma non sprechiamo queste risorse in cose che lo Stato forse non deve, certo non sa fare.

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