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Stato e mercato. Intervista a Franco Debenedetti

Pubblicato il 29/09/2021 @ 16:48 in Articoli Correlati


a cura di Lorenzo Benassi Roversi

Oggi la mano pubblica interviene con forza. Cosa si dice dalla prospettiva liberale?
Franco Debenedetti: L’intervento dello Stato in risposta alle calamità è dovuto: è suo dovere proteggere i cittadini. Il Covid ha reso necessaria la riduzione di libertà che potranno essere riacquisite solo vaccinando la popolazione.

Fin qui, tutti d’accordo, o quasi… ma non la spaventa che gli apparati pubblici assumano un ruolo così importante nell’economia?
Franco Debenedetti: Da una parte, vedo i pericoli dell’assistenzialismo. Dall’altra, connessa ai fondi del PNRR, c’è una grandissima opportunità di ripartenza.

Anche Lei si affida alla spesa pubblica. Sta diventando keynesiano?
Franco Debenedetti: (ride) Mi spiego. I fondi del Next Generation EU sono condizionati all’avvio di riforme di cui abbiamo bisogno per risolvere problemi che ci trasciniamo da decenni. Se questa opportunità non fosse colta sarebbe una tragedia – per tutti non solo per i liberali –. La “pacchia” della BCE che acquista il nostro debito a tassi di interesse così bassi non continuerà per sempre. I fondi europei sono un’opportunità perché possono costringerci a cambiare le regole in senso liberale. Il vincolo estero, come già in passato, può giocare a nostro favore.

Il riferimento è alla legge sulla concorrenza?
Franco Debenedetti: Anche. Ci sarebbe molto da fare. Sa in quanti settori il nostro ordinamento nega la concorrenza? Eppure, dove la concorrenza è arrivata – dalla telefonia all’Alta Velocità – l’efficienza è cresciuta e i prezzi sono calati.

A quali altre riforme pensa?
Franco Debenedetti: Dobbiamo chiederci: perché l’Italia ha una produttività più bassa degli altri Paesi? Prima del Covid-19 crescevamo meno degli altri, in ragione di problemi strutturali. I principali sono giustizia, fisco e pubblica amministrazione. La prima riforma è partita, c’è un testo, ma ci sarà da vincere la resistenza delle consorterie nella magistratura. La seconda è ancora da impostare, si intende partire dal catasto, ma il bilanciamento degli interessi sarà tremendamente difficile. Quanto alla pubblica amministrazione, mi preoccupa in particolare un suo sottoinsieme: la scuola.

Cosa la preoccupa?
Franco Debenedetti: Che non si cambi davvero. I criteri con cui si assume favoriscono chi è già dentro al sistema, a prescindere dal merito: invece bisogna assumere discriminando. Vanno insegnati i valori dell’individuo, per cui uno non vale uno. C’è bisogno di introdurre il principio della concorrenza: dalla valutazione dell’attività degli insegnanti devono dipendere vantaggi e svantaggi, economici o di carriera. Se non passa il principio del merito a cosa educhiamo? La nostra scuola però non vuole valutare e non vuole essere valutata, non vuol sentir parlare di premiare merito ed efficienza. Bisogna vincere le resistenze. È in gioco il futuro, dei nostri ragazzi e del nostro Paese.

Restiamo al presente. Da liberale, non le causa perplessità il fatto che l’economia sembra dipendere sempre più dai poteri pubblici che non dal libero gioco del mercato? Sono stati creati Ministeri appositi per spingere l’economia in direzioni ben specifiche, penso al Ministero della Transizione Ecologica, a quello della Transizione Digitale. Il Green Deal di Ursula von der Leyen già nel nome echeggia il New Deal di Roosevelt. A voi liberali non dovrebbe venire qualche timore?
Franco Debenedetti: Risorse economiche in grande quantità saranno prese a prestito dall’Europa e lo Stato si occuperà di collocarle. I rischi ci sono e sono i soliti: che i soldi siano spesi male e poi vadano restituiti a prezzo di sacrifici. Ma guardi, se pensa che l’economia vada in certe direzioni su spinta pubblica si sbaglia. Non è così. I mercati si sono già da tempo orientati verso transizione tecnologica e sostenibilità ambientale, così anche le imprese e gli investitori. D’altronde, il campione delle turbine eoliche è un’azienda privata, la Siemens, le tecnologie della transizione ecologica sono sviluppate da privati. Oggi si parla di mobilità sostenibile, ma non è lo Stato che ha inventato le macchine elettriche. Si tratta di agevolare questi processi di transizione. Lo si può fare bene o male, in modo liberale ed efficiente o in modo illiberale e inefficiente.

Qual è la discriminante?
Franco Debenedetti: Se lo Stato interpreta bene il suo ruolo di regolatore. Abbiamo la fortuna di avere al Governo Mario Draghi, che credo abbia ben presente questo rischio.

Sul fronte ambientale, sono in molti a dire che l’intervento pubblico è reso necessario da un fallimento del mercato, che lasciato a sé stesso non è stato in grado di tutelare l’ambiente da un capitalismo distruttivo.
Franco Debenedetti: Non è così. Si confonde il ruolo del mercato con quello dello Stato. Per molto tempo c’è stata un’assenza di normazione: è lo Stato che deve fare le regole. Il mercato permette ai privati di esercitare la massima libertà entro quelle regole, che lo Stato fa rispettare con controlli e sanzioni. Gli Accordi di Parigi, ad esempio, non sono in contrasto con i principi liberali. Il punto è che lo Stato non si metta a fare l’imprenditore. Pensi a Enel: lo Stato è azionista di maggioranza, ma sta al suo posto, non interviene in modo distorsivo della concorrenza. Enel funziona come le altre aziende e funziona bene: è quotata in borsa, si espande all’estero.

Si sente dire che i fondi del Recovery Fund permetteranno allo Stato di interpretare il ruolo di “innovatore”, per citare Mariana Mazzucato, con cui lei ha qualche conto aperto. Cosa c’è che non le va a genio in questo modello?
Franco Debenedetti: Lo Stato non può fare l’imprenditore e l’innovatore perché fa già il regolatore. Se entra nel gioco economico limita la concorrenza. Lo Stato decide regole e deroghe, può avere liquidità illimitata attraverso il prelievo fiscale. Chi può competere a queste condizioni? No, guardi, se lo Stato adotta questa logica non c’è speranza.

Si fa notare che la Silicon Valley non esisterebbe senza investimenti pubblici.
Franco Debenedetti: La Silicon Valley è un sistema altamente concorrenziale. Nessuno sa come si produce l’innovazione, non ci sono meccanismi esatti. Si sa però che esistono condizioni che favoriscono l’innovazione. La prima di queste è la concorrenza. Se lo Stato vuole favorire l’innovazione, si occupi di garantire mercati concorrenziali. Inoltre, per innovare è necessario saper trarre profitto dagli errori. Lo Stato tende a non farlo perché costa in termini di consenso, mentre le conseguenze economiche si pagano solo a distanza di generazioni. Ne viene che lo Stato non sbaglia mai e quando sbaglia tende a nascondere i propri errori, ricoprendoli di denaro pubblico. Alitalia è un buon esempio, no?

Torniamo all’ambiente. Si teme che le politiche sostenibilità determini il rimpicciolirsi di alcune filiere, quelle legate alla plastica o alla chimica, per esempio. Tra i più preoccupati ci sono alcune categorie sindacali. Che dire a riguardo?
Franco Debenedetti: È una forma di luddismo. Non si vuole capire che non è la politica, ma è il mercato ad andare in questa direzione, ad avvantaggiare filiere sostenibili. Oggi è così. Sono stato presidente di una società con sede a Bologna, che produceva macchine per la lavorazione del tabacco. Quando abbiamo capito che il consumo di sigarette diminuiva ci siamo orientati altrove, verso le macchine per l’imballaggio. Abbiamo trovato un’altra strada. Non si può contrastare il nuovo per difendere ciò che non funziona più. È un metodo che sottrae efficienza al mercato.

Ci saranno costi sociali da sopportare se certe filiere andranno a ridursi. Al liberismo si rimprovera un certo cinismo, il disinteresse verso le ripercussioni sociali.
Franco Debenedetti: Dalla rivoluzione industriale a oggi il libero mercato è stato fonte di ricchezza e benessere. Ci sono Paesi dove le libertà economiche non sono mai arrivate, sono Paesi in cui non vorremmo vivere. Per crescere, si cambia. Se la mobilità elettrica è il futuro ma il motore elettrico si compone di meno pezzi del motore a scoppio qualcuno rimarrà senza lavoro, dovrà imparare a fare altre cose. Così come il capitale fisico delle aziende deve rinnovarsi, il capitale umano deve riqualificarsi. È la storia che ce lo dice, dai tempi della spoletta meccanica che rivoluzionò l’industria tessile inglese. Il luddismo nasce quando qualcuno rifiuta di adattarsi.

Tante imprese oggi sostengono di avere superato la logica del mero profitto e di adottare modelli di business orientati alla responsabilità sociale. C’è un rifiuto del ruolo affidato alle imprese dal liberismo classico che viene da dentro al sistema imprenditoriale?
Franco Debenedetti: Quella della responsabilità sociale è un’operazione di pubbliche relazioni. Le imprese tengono a mostrarsi responsabili perché esserlo permette di massimizzare i profitti. Prendiamo la Business Roundtable: 181 tra i più importanti imprenditori degli Stati Uniti promisero di gestire le proprie aziende avendo di mira lo stakeholder value, non lo shareholder value. Uno studio riportato dal Financial Times mostra che non è cambiato alcunché da quella dichiarazione ad oggi.

Tutta ipocrisia?
Franco Debenedetti: Non hanno cambiato perché non era necessario cambiare. Lo spiego nel libro Fare Profitti. Etica dell’impresa, che tratta proprio questo tema. Non serve sovrapporre altre logiche e altre finalità alle società di capitale che operano su un mercato competitivo. Per trattenere gli operai e garantire la produzione, Henry Ford si accorse che era nel suo interesse fare qualcosa: aumentò le paghe e ridusse l’orario di lavoro. Ovviamente, la logica era quella della massimizzazione del profitto. Le imprese continueranno a fare ciò che conviene ai loro azionisti e a rispondere a ciò che chiede il mercato. E ciò è un bene perché da duecento anni è così che si crea la ricchezza.

Da più parti si ritiene necessario dare al mercato una direzione più “morale”, per così dire. Inaccettabile?
Franco Debenedetti: Il mercato di per sé non è né morale, né immorale. Oggi però il bene della reputazione ha un grande valore per le imprese. Nike stava per fallire quando si scoprì che nella filiera di produzione che faceva capo all’azienda si verificava lo sfruttamento del lavoro dei minori. Inizialmente, Nike ha negato la propria responsabilità sulla condotta delle altre aziende della filiera. Poi ha dovuto cambiare direzione e impegnarsi in una campagna che garantisse una filiera più equa. A richiederlo sono stati i consumatori, ossia il mercato.

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