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Solo la flessibilità crea occupazione

Pubblicato il 19/02/1997 @ 11:52 in Giornali,Il Sole 24 Ore


L’Italia, dice il recente rapporto del Fondo monetario sull’occupazione, e’ al primo posto quanto a rigidità del lavoro; il Governatore Fazio rilancia con tutta la sua autorevolezza l’esigenza di aumentare la flessibilità. Ma l’unica apertura in tal senso- i contratti d’area- risulta soffocata da vischiosità amministrative; e periodicamente- ultimamente Pierre Carniti- ripropone l’idea della riduzione d’orario a parità di salario come rimedio alla disoccupazione.

Respingere tale tesi con polemiche ideologiche rischia, paradossalmente, di rafforzarne la presa: conviene invece confontarsi con chi, anche in sede scientifica, sostiene che non necessariamente ciò danneggerebbe la competitività delle imprese. Come fa, ad esempio, Francesco Scacciati in un lavoro teorico pubblicato insieme ad altri saggi di economisti del lavoro dell’Università di Torino (“Proposte eretiche per l’occupazione” Rosemberg & Sellier).
Il modello si basa su un patto tra imprese, lavoratori e Fisco, che ha per “posta” il vantaggio che l’erario trae da un aumento del numero degli occupati, quale si genererebbe se le imprese procedessero, a parità di output, ad una sensibile e brusca riduzione dell’orario. L’impresa che entra nel patto, può sottrarre tale “posta” dal totale degli oneri sociali dovuti: è libera di entrare nel patto e di uscirne in qualsiasi momento ( perdendo ovviamente i vantaggi fiscali).
Il modello dimostra che è possibile ridurre l’orario mantenendo costante profitto per l’impresa, gettito dell’erario e salario mensile del lavoratore; in altre parole, che l’aumento del gettito fiscale e la riduzione della spesa pubblica derivanti agli aumenti occupazionali sono pari alla riduzione dei profitti che si avrebbe in assenza dello sconto sul costo del lavoro.
Il modello non è esente da critiche di carattere pratico, di cui l’autore è consapevole: crea due categorie di lavoratori, con “cunei fiscali” diversi; non risolve il problema di aziende che hanno lavoratori in cassa integrazione; se le aziende seguono trend tecnologici labor-saving, continueranno a farlo anche dopo l’adozione dell’orario ridotto; i costi del monitoraggio non sono nulli. Tuttavia esso ha il merito di sdrammatizzare il tema: e induce a svolgere considerazioni che ci portano più vicino al cuore del problema: anche se probabilmente più lontano dagli intendimenti del suo proponente.
Prima considerazione: perché le aziende possano aderire al patto, bisogna che siano disponibili lavoratori di pari livello professionale, e che essi siano informati dell’offerta. Il modello ha bisogno per funzionare di un sofisticato sistema informativo: non certo quello offerto oggi dal monopolio statale del collocamento.

Secondo: lo schema si applica solo a reparti prevalentemente produttivi -e non di servizi- omogenei e di rilevante consistenza numerica: dunque solo alle grandi imprese manifatturiere. Ancora una volta si lavora su un modello industriale poco aderente alla realtà italiana attuale.
Ma ciò che del modello risulta più interessante è il nesso causale che istituisce tra cuneo fiscale e disoccupazione: la “mossa” che apre il gioco è la riduzione degli oneri sociali. È necessario che questa mossa sia consentita solo se si riduce l’orario e se quindi, per mantenere costante il prodotto totale, si assumono altri lavoratori? Supponiamo che gli oneri sociali venissero ridotti senza condizioni per tutte le imprese: queste potrebbero o adottare la strategia di ridurre l’orario e assumere altri lavoratori, ad output e profitti invariati, o vedrebbero aumentare i propri margini. Scacciati ritiene che maggiori margini diventerebbero maggiori profitti che solo lentamente farebbero aumentare la domanda globale.
Ma perché mai in un mercato concorrenziale e in presenza di una domanda sufficientemente elastica gli imprenditori non dovrebbero fare ciò che corrisponde ai loro interessi, alla loro natura, a ciò che sempre hanno dimostrato di voler fare, e cioè “investire” i maggiori margini per conquistare mercato, e aumentare ricavi? Se non lo fanno, non sarebbe in primo luogo necessario individuare e rimuovere gli ostacoli che li portano a scegliere una strategia così innaturale?
L’occupazione crescerebbe così in modo più “tradizionale”, senza bisogno di stipulare patti, di controllarne l’applicazione, di evitare gli abusi ecc. E analoga osservazione potrebbe farsi a proposito della flessibilità, che l’autore riconosce necessaria per il funzionamento del modello.
In conclusione, il modello conferma il nesso tra disoccupazione da un lato, oneri fiscali e flessibilità dall’altro. Ma solo un improprio bilanciamento induce a scambiare l’allentamento di alcuni vincoli del mercato del lavoro con un vincolo sull’orario. Purtroppo nei momenti di difficoltà del ciclo l’improprietà di questo scambio appare meno grave del suo presunto vantaggio: nel suo ultimo libro Jeremy Rifkin ricorda che persino il Congresso americano nel ’36-37 fu a un passo dal legiferare una riduzione generalizzata d’orario a parità salariale. Forse non possiamo pretendere che Fausto Bertinotti – e adesso Pierre Carniti- non abbia, sessant’anni dopo, analoga tentazione. Ma altri dovrebbero essere un po’ più fortificati di fronte a simili “proposte eretiche”.

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