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Siderurgia pubblica: una lunga storia di ordinaria follia

Pubblicato il 01/05/1993 @ 17:14 in Varie


Forse con altri 8000 miliardi ce la caviamo. Con questo ultimo piano di ristrutturazione, dal 1975 oggi avremo bruciato negli altiforni 30mila miliardi; in lire di oggi saranno un 50 mila lire al secondo, 24 ore al giorno, 365 giorni l’anno: per 18 anni. La storia dell’acciaio di Stato contiene tutti gli ingredienti della nostra storia politica ed economica: la trasformazione da economia agricola ad industriale, i rapporti tra industria pubblica e privata, i partiti e í sindacati, le istituzioni europee, il ruolo delle innovazioni tecnologiche nel cambiare i parametri di un’industria.

Mentre nei paesi europei la produzione dell’acciaio era stata appannaggio di poche fa miglio in Italia il tardivo inizio dell’industrializzazione dovette essere sostenuto, fin dal secolo scorso, dall’intervento dello Stato (Terni è del 1884); la crisi del 1929 portò nel 1937 alla creazione in ambito Iri di Finsider. Il nostro “capitalismo senza capitali”, già alla vigilia della ricostruzione vede la prevalente presenza pubblica in molti settori strategici. La debolezza della nostra borghesia e gli elevatissimi costi degli investimenti resero quasi ovvia una divisione del lavoro che demandava alla iniziativa pubblica il controllo della produzione industriale di base, alla privata quella dei beni di consumo: l’acciaio (e poi le fonti energetiche) alla prima, l’auto e gli elettrodomestici alla seconda. Quanto alla chimica, avrebbe poi offerto interpretazioni di indubbia originalità del tema “economia mista”. La fine della guerra presentava opportunità senza precedenti per lo sviluppo dell’acciaio: la caduta delle barriere tra Stati, determinate in passato proprio dal carattere strategico di questo materiale, grazie al trattato Ceca (1951) e prima ancora al piano Schuman; le necessità della ricostruzione (nel 1938 l’Italia consumava 1/5 dell’acciaio della Germania), e quelle dei Paesi che si affacciavano allo sviluppo economico; l’apertura degli scambi, che svincolava l’industria dell’acciaio dalla necessità di localizzarsi vicino alle miniere di carbone e di minerali ferrosi; le prospettive di innovazioni tecnologiche, che poco più tardi avrebbero portato all’introduzione dei convertitori ad ossigeno e quindi alla colata continua. Di qui i punti chiave del piano Sinigaglia: impianti costieri, tecnologie avanzate, perseguimento dell’economia di scala nella prospettiva di un mercato capace di assorbire quantità praticamente illimitate di prodotto. Ma questi principi di politica industriale dovettero fare ben presto i conti con i principi della politica tout court. 1.1 principio industriale dell’economia di scala incrociato con il feticcio della crescita della capacità produttiva, produsse il gigantismo degli impianti: i piani si accavallavano prima ancora che i precedenti fossero portati ad attuazione: Taranto, deciso nel 1960 per 3 milioni di tonnellate, portato a 4,5, quindi, con il “raddoppio” a 10 e poi a 12, non entrava in piena attività che nel 1974, mentre già nel 1970 si ponevano le premesse per Gioia Tauro. 11 principio economico delle localizzazioni costiere diventa il mito fallace di una politica “renana” di industrializzazione del Mezzogiorno.
L’evoluzione politica — la costituzione del Ministero delle Ppss nel 1956, l’aumentato peso dei sindacati a seguito dal boom economico degli anni ’60, la stabile presenza di un partito pro-labour nel governo a partire dal 1963, ulteriormente sancita dal periodo di solidarietà nazionale — si abbattè sulla politica siderurgica, forzandola ad assumere obbiettivi extra-economici: dalla stabilizzazione dF1 ciclo, al sostegno dell’occupazione, all’equilibrio della bilancia dei pagamenti. Il meccanismo dei fondi di dotazione fornì capitali sottratti al giudizio economico, nella confusione tra obbiettivi d’impresa e di economica.
Il decennio dal 1974 al 1983 segna il massimo di questa confusione. Nel 1974 la crisi di settore innescata dallo shock petrolifero venne prima o poi interpretata dagli altri paesi europei come un mutamento strutturale, con drastiche ristrutturazioni: da noi la parola fine su Gioia Tauro viene posta solo nel 1978, dopo che erano stati spesi 400 miliardi; 1000 vennero spesi per il rammodernamento di Bagnoli. Mentre in Gran Bretagna si eliminavano 80 mila posti di lavoro, in Germania 35 mila, in Francia 50 mila, in Italia Finsider aumentava l’occupazione fino ai 120 mila addetti del 1980. Agli obbiettivi sociali faceva riscontro l’ingestibilità sociale: a Taranto nel ’77 la produzione annua di acciaio per addetto era di 350 tonnellate contro le 600 dei giapponesi.
Come già negli anni ’50, il deus ex machina fu la Commissione della Cee: il suo ruolo dirigista diede il pretesto a sindacati e partiti per accettare all’inizio degli anni ’80 politiche meno suicide. Tra 1’80 e 1’85 la Cee mise in atto una terapia che costò 60 mila miliardi, di cui quasi un terzo andò all’Italia. Mentre l’industria pubblica inseguiva il miraggio dell’aumento della quantità di acciaio colato, i prudi”, tori privati si concentrano sui prodotti lunghi, sfruttando dapprima le potenzialità del mercato edilizio, e poi l’innovazione tecnologica delle miniacciaierie alimentate da energia elettrica e cariche con rottame di ferro, destinata a cambiare, in Italia come negli Usa, la struttura stessa del settore. Mentre l’industria pubblica si affanna a recuperare un controllo sociale che consenta almeno il raggiungimento delle potenzialità teoriche dei suoi costosissimi impianti (il “progetto coinvolgimento”, i piani Mro) i bresciani possono contare sulla collaborazione di personale altamente qualificato. Mentre Finsider scopre la necessità di mettere in piedi il marketing, i bresciani a metà degli anni ’70 producono il 75 per cento del tondo colato in Italia ed il 40 per cento di quello Cee. Ed è emblematico che nel 1984 Lucchini sia eletto presidente di Confindustria, mentre Prodi dimezza Roasio, dopo che nell’83 le perdite di Finsider toccano il vertice di 2100
Nonostante il taglio, tra 1’80 e 1’87, i costi di produzione di Taranto erano del 15 per cento superiori a quelli di Usinor Sacilor. L’inaspettato boom dei prezzi della siderurgia degli ultimi anni ’80 paiono a Prudi, che nell’87 aveva mandato tutti a casa e messo Gaulardella alla testa dell’Uva, la società clic aveva ereditato i migliori impianti le non i 6000 miliardi di debiti) di Finsider, il “pizzico di fortuna” che risolva nodo dell’acciaio pubblico; ne saranno invece il colpo di grazia. Si smantellano alcuni impianti, si razionalizza la struttura, si fanno uscire altri 10 mila addetti, e nell’88 llva ha un utile “corrente” di 438 miliardi: ma Usinor, doppia di Ilva, ha un utile “netto” di 1670 miliardi, British Steel, stessa dimensione dell’Uva, 1147, e cosi via. Se il mercato si restringe, il mercato va razionalizzato. Aveva iniziato De Michelis nell’82 con il generoso acquisto di Teksid dalla Fiat: 550 miliardi, La trattativa per privatizzare Cornigliano nell’84 sfocia in una lite: alcune centinaia di miliardi di perdite. Nell’85 si cerca, senza successo, di – comperare il treno nastri Falck di Sesto: ci riprova Giunbardella, una delle mosse di una euforica strategia di acquisizioni che costerà 1300 miliardi, seguita, all’inversione di rotta nei prezzi, da una di dismissioni, anch’essa costosa. Sicché l’indebitamento dell’Uva raggiunge nel ’92 gli 8300 miliardi, triplicati in quattro anni.
Risultato: oggi importiamo un quarto dei laminati piani; Magona e Alessio acquistano da Usinur, che tratta le forniture a Fiat. Taranto continua a produrre acciaio scadente, a prezzi superiori alla concorrenza. Si spera in Nakamura per ridurre un assenteismo dell’80 per cento, mentre ogni 3 persone che lavorano ce ne sono 2,3 che non fanno nulla, . E chiede, appunto, 8000 miliardi. E poi? Ma è chiaro, una bella public company.

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