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Sfruttiamo la crisi per cambiare

Pubblicato il 07/08/2011 @ 14:47 in Giornali,Il Sole 24 Ore


Quanto della crisi che stiamo attraversando è dovuta a fattori esterni e quanto a fattori nazionali? Capirlo è importante per interpretare gli avvenimenti politici degli ultimi giorni, e per orientarsi su quelli futuri.

Obama, Merkel, Eurogruppo, Berlusconi, il problema è generale: debolezza della politica in tutti i Paesi, incapacità di tutti di individuare ricette, fuga dal rischio e quindi crisi del debito in tutti i mercati.

L’Italia subisce le debolezze strutturali dell’euro, tra cui quella di essere, come ha scritto Paul De Grauwe sul FT del 4 Agosto, una moneta senza un prestatore di ultima istanza. Non lo è la BCE, costretta dal suo statuto a difendere il valore della moneta, e a provvedere solo alle crisi di liquidità delle banche. Non lo è l’Efsf che i governi dell’eurogruppo hanno dotato di risorse insufficienti e di un processo decisionale incerto e lento per dispiegarle: e che comunque, a differenza di una banca centrale, non può creare moneta in quantità illimitata. La “speculazione”, ovvero i mercati, hanno colto questa ambiguità e messo alla prova la volontà politica di risolvere non solo i problemi minori (Grecia Irlanda e Portogallo) ma quelli maggiori. L’Italia, con la necessità di rifinanziare il suo debito pubblico, in un momento in cui il mercato cerca impieghi non rischiosi, è il tavolo ideale su cui chiedere di vedere le carte.

L’Italia di suo soffre della propria debolezza cronica di non crescere, e di quella di avere oggi un Governo logorato e diviso, capace solo di stringere i denti per contenere (alcune) spese. Con una certa approssimazione si può dire che la crisi di origine esterna è una crisi del debito, quella di origine interna lo è del deficit: che la prima è congiunturale – inizia con la pessima gestione del default greco – e la seconda strutturale – risale perlomeno al 2001, la seconda vittoria di Berlusconi, dunque ben prima di Lehman.

La cosa che appare più ovvia è usare la crisi esterna per avviare a soluzione la crisi interna, le drammatiche giornate dello spread a 400 per curare un problema che dura da 18 anni. Quanto a soluzioni, ciascuno ha la propria: un governo tecnico che faccia le cose che i politici non sanno fare, un governo di unità nazionale che faccia quelle che i contrapposti interessi non lasciano fare, una nuova maggioranza che faccia quello che l’attuale non può fare. Soluzioni che poi tali sono solo se trovano in Parlamento la maggioranza che le sostenga. Opposta è ovviamente la soluzione per il Capo del Governo: la crisi esterna è interesse di tutta l’eurozona risolverla, e quando lo spread si ridurrà, il merito se lo prenderà lui. Anche per lui la crisi offre l’opportunità di fare qualcosa, ad esempio ridefinire alcuni rapporti all’interno del suo schieramento – in primis con Tremonti – e forse forse anche all’esterno. Vengano pure le modifiche costituzionali sul pareggio di bilancio, sull’art. 41, ( e già che ci siamo anche quella dell’art. 39 sui contratti collettivi), sul finanziamento di alcuni progetti che giacevano al Cipe. Tutte cose sacrosante, (della Costituzione io volevo addirittura modificare l’art. 1) ma che solo nel medio periodo incidono sugli interessi dei cittadini. Mentre qui la resa dei conti è, al massimo, nel 2013. Ragion per cui, quanto alle riforme che davvero promuoverebbero la crescita, dall’aumento dell’età pensionabile, alle privatizzazioni delle società comunali, alla liberalizzazione delle professioni, giù giù fino alla apparentemente innocua abolizione del valore legale del titolo di studio, perché avviarle quando all’orizzonte non si scorge una maggioranza che saprebbe farlo ( anzi, a essere sinceri, neppure una nuova maggioranza tout court)? Le vadano a dire loro queste cose nei comizi elettorali, anzi ci mettano pure la patrimoniale.

Cinismo? Un politico che cerchi di vincere è il motore della democrazia. L’importante sarebbe avere realismo, rendersi conto che il ciclo politico iniziato con la “discesa in campo” è finito, e non per motivi anagrafici: infatti la legislatura del 2001 ha reso evidente che la rivoluzione liberale, dilettantisticamente tentata nel 1994, era un miraggio, sicché invece del “miracolo italiano” è continuata la perdita di competitività, la stagnazione e il declino. Ora “l’intesa quasi mistica che per quasi vent’anni, ha legato Berlusconi a metà del popolo italiano” (Mauro Calise) si è spezzata. L’errore per la sinistra (e il pericolo per il Paese) sarebbe pensare che non sia rimasto nulla della sua intuizione di congiungere destra e modernità, che sia stata effimera “la [sua] conquista dell’egemonia culturale” (Ezio Mauro), e che non ci sia che raccogliere i resti delle sue debolezze. Ci vuole invece capacità politica in grado sommo per tradurre il disincanto in volontà di introdurre le riforme dure, faticose, anche dolorose, comunque impopolari, di cui ha bisogno il Paese. A chiedere a Berlusconi di andarsene non si va lontano, e ci si perdonerà di non nutrire fiducia nei tavoli bipartisan. Se per la “crisi del debito” ci vuole la volontà dei Paesi dell’euro, per la “crisi del deficit” ci vuole un’opposizione credibile: forse per il 2012 è già tardi, e per il 2013 non è certo presto.

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