Sergio capeggia un Tea Party degli industriali ma non lo sa

ottobre 27, 2010


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di Stefano Cingolani

Marchionne non ha ambizioni politiche ma di fatto le sue idee costituiscono un manifesto di rivoluzione sistemica

A chi ha parlato Sergio Marchionne? Ai sindacati, ai politici, ma non solo. Ha parlato anche agli imprenditori che si sono trasformati in concessionari di servizi pubblici, ai banchieri troppo grandi per fallire, ai padroni dei tempi andati, i quali hanno lasciato i più piccoli a combattere con i sindacati e con i cinesi.
L’amministratore delegato della Fiat, è ormai evidente, ambisce a scuotere quella che gli appare una foresta pietrificata. In fondo, in tv ha rilanciato quel che aveva detto il 2 ottobre a Firenze davanti ai cavalieri del lavoro. Tra compagni di strada e alleati di classe, ha trovato una solidarietà d’ufficio. Con qualche eccezione come Alberto Bombassei (e non solo perché fornisce sistemi frenanti alle automobili) o Giorgio Squinzi. La Confindustria non ha fatto mancare la propria approvazione. “Pone i problemi veri”, ha detto Emma Marcegaglia.
Non è ancora chiaro, però, se la provocazione di Marchionne prepara una sorta di manifesto dell’impresa,
un Tea Party degli industriali o uno strappo solitario, come quando nel 1980 Umberto Agnelli chiese la svalutazione della lira e la possibilità di licenziare. Cesare Romiti era il campione del braccio di ferro con sindacati e governi. Ma allora spesso finiva che tutti pagavano per le inefficienze di pochi (è questo il senso degli aiuti di stato). Con il mercato aperto lo scambio diventa molto più difficile. E lo dimostrano proprio i salvataggi americani.
Racconta Steven Rattner, lo zar dell’auto, l’uomo che ha salvato Gm e dato la Chrysler in mano a Marchionne: Obama all’inizio non voleva pagare e domandava candidamente “perché non sappiamo fare vetture come la Toyota Corolla”? Magari qualcuno avesse posto la stessa questione alla Fiat, prima di aprire il portafoglio. “I contribuenti non sono disposti a gettare i loro quattrini in aziende che non funzionano”, sottolinea Rattner. Ciò vale anche per Pomigliano d’Arco? La Casa Bianca ha licenziato i capi azienda e imposto condizioni chiare, a cominciare da un modello contrattuale flessibile che avvicini gli impianti americani a quelli giapponesi. “Dovete accettare una cultura della povertà invece della cultura dei diritti acquisiti”, gridava Marchionne a Ron Gettelfinger, presidente del sindacato dell’auto, durante le trattative. E lui: “Così volete seppellire un modello contrattuale che dura da un secolo”. Un negoziato drammatico.
Ma oggi sta rinascendo un’industria dell’auto migliore. Ford porta a casa utili per 1,7 miliardi di dollari nel terzo trimestre e a fine anno non avrà più un debito, tutto ciò senza un dollaro dal governo. Anche Gm e Chrysler sono tornate a guadagnare. E’ ingenuo voler applicare modelli altrui. Però, non si possono difendere prerogative che fanno parte di un’altra epoca. In Italia dal 2000 al 2007 sono stati concessi 55 miliardi di euro all’industria suddivisi in 88 interventi più o meno a pioggia. Hanno migliorato la competitività? Solo la media impresa manifatturiera italiana tiene il passo di quella tedesca, non la grande industria che arretra, perde posti di lavoro e aumenta i debiti. Le ragioni sono diverse, tra le quali quella sindrome del declino dalla quale sono state travolte le famiglie del capitalismo. Ma come negare le rigidità sindacali? Una Fiat che non chiede più soldi ai contribuenti (impegno di Marchionne) e compete con le proprie forze, persegue il proprio interesse, ma anche quello dei lavoratori che pagano le tasse. Possiamo vivere senza produrre auto. C’è chi se lo augura. Tuttavia, è difficile far crescere il benessere e l’occupazione, salvare il welfare state e mantenere il 5 per cento del mercato mondiale, senza grandi gruppi efficienti nella manifattura e nei servizi privati. Chissà se questa volta quella borghesia sempre tentata di farsi partito, uscirà dalle retrovie. La campana suona anche per lei.

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