Se lo Stato di Polizia veste Prada (come Franco Debenedetti)

aprile 23, 2020


Pubblicato In: Varie


di Michele Fusco

Al vero liberale la frase “Se non hai niente da nascondere…”, che direbbero tutti quelli per cui qualunque forma di controllo sociale non è mai un pericolo, fa semplicemente ribrezzo. Il liberale difende esattamente quelli che hanno qualcosa da nascondere, perché è nel segreto di una stanza, di un caveau, di un qualcosa insomma che abbia qualche privatezza, che è disegnata la linea immaginaria di ogni libertà. Noi che indaghiamo vite altrui, non saremmo dunque liberali in purezza, almeno secondo i canoni classici, perché in qualche modo ci facciamo gli affari degli altri. La grandezza del giornalismo è dare una patina di credibilità, quando si può, alle nostre illiberalità. Tra quelle personali, ne confesso una piccola, ma sincera.

Ed è l’indagine estetico-sentimentale di Franco Debenedetti, un bellissimo signore che veleggia verso i 90, famiglia di una certa notorietà, che presiede da diversi anni quel che sarebbe identificato come un avamposto liberale: l’Istituto Bruno Leoni. In questo tempo amaro, i ragazzi dell’istituto che potrebbero essere suoi nipoti, si sono messi in testa una battaglia che ha una qualche arditezza: dimostrare che l’Italia vive uno Stato di Polizia.

Poi ci arriveremo agli argomenti, ma prima, consentirete quel minimo di perplessità pensando proprio a lui, alla libera chioma bianco-argentea più famosa del Capitalismo (morto l’Avvocato). Quando lo incontriamo, e ci capita tra Roma e Milano, l’ingegner Franco è sempre completamente fasciato Prada, scarpe a punta con carrarmato comprese. Impeccabile, un bel giorno preferì Miuccia a qualunque Caraceni del pianeta che invece veste i doppiopetti del fratello non adorato. Che un signore d’altri tempi vesta la stilista di sinistra chic, se volete, è un rischio d’impresa che gli fa onore, quello d’esser considerato dalla massa anche un filo ridicolo. Ma egli, che con quella chioma può dire ciò che vuole, sostiene la parte con enorme compostezza, fottendosene anche che il Bertelli gli ciucci dal portafogli cifre spropositate in presenza di manufatti semi-industriali.
Certo, capispalla e Stato di polizia non sembrano essere esattamente compatibili, ma andiamo con ordine. Il Nostro è anche un grande appassionato di giornali, da cui, appunto, passerebbe quella linea immaginaria di ogni libertà. Nella sua bio, alla voce “Attività pubblica, in Senato e sui media, egli ne cita quattro dove scriveva ai tempi parlamentari: Stampa, Corriere, Sole 24 Ore e Riformista. È, ancora e sempre, un enorme compratore di giornali, amando probabilmente la carta più di sé stesso. Qualche anno fa, di fronte ai nostri occhi sognanti, un buon mattino all’edicola di Stazione Termini si accollò una fascetta spropositata di quotidiani la cui semplice declinazione richiese almeno una decina di secondi. Lungo i quali, però, non comparve mai (mai) la parola «Repubblica». Fu un momento memorabile, la certificazione notarile di leggende sparse per la penisola: egli non aveva comprato il giornale del fratello! In quei pochi secondi, dimostrò senza tema di smentita che essere liberali costa davvero una fatica sovrumana e anche un sincero suiveur di quei sani principi doveva alzare bandiera bianca di fronte al quotidiano meno liberale del panorama italiano.

Ci rimase, al fondo, un solo dubbio: non aveva comprato Repubblica perché poco incline a quei principi, o perchè, piuttosto, era il giornale del fratello Carlo non adorato? Ancora oggi, pensiamo la seconda. Un vero liberale compra anche (soprattutto) i giornali sgraditi. Un vero liberale contempla, per la sua vita, una parte di sofferenza personale.
E qui veniamo ai nipotini dell’ingegner Franco. I quali, in un tempo in cui molte differenze sociali si livellano – lo stare in casa è la madre di tutte le battaglie (ma comunque no, non siamo lo stesso tutti uguali in questo periodo) – sentono la necessità di ritagliarsi una nicchia libertaria com’è giusto che sia. Persino doveroso, in epoca di omologazione sociale imposta da virus, che le nostre sentinelle del Bruno Leoni spulcino pandette per capire se e dove lo stato restringe pericolosamente le nostre libertà personali. È un lavoro sporco che qualcuno deve pur fare. Il difetto di questi giovanotti, se permettono, è di essere esageratamente accademici, persino fastidiosamente leziosi, rispetto al conto profitti-perdite di un cataclisma come questo. Non pongono esempi all’attenzione di noi cittadini, esempi che sanguinino per intenderci, e quando lo fanno è per esibire qualche episodio da strapaese in cui droni, elicotteri, F-35, inseguono un povero disperato che corre suona spiaggia deserta. Dopo due mesi di questa condizione, è davvero il minimo sindacale.

Abbiamo già scritto di un sentimento nuovo che è emerso, insospettabilmente, in questo Paese, che è la Disciplina . Che è un vero sentimento liberale, non il suo contrario. È una tensione sociale, collettiva, un considerare primario un obiettivo rispetto ad un altro, esattamente il bivio liberale in purezza: e l’obiettivo di avere salva la vita, ha la meglio anche su condizioni che non accetteremmo mai in tempo di pace. L’errore dei valorosi del Bruno Leoni è considerare tutto questo uno Stato di Polizia. Lo stato di polizia riduce le libertà e non te le riconsegna più. Lo stato di Polizia annulla i diritti alla libera informazione, alla libera lettura dei libri di ogni foggia, lo stato di polizia incarcera e butta la chiave, lo stato di polizia mette in condizioni i libertari di rischiare la ghirba e, soprattutto, la reputazione. Non di sorriderne amabilmente in qualche simpatica e allegra chiacchierata social.

A proposito di rischiare la faccia. È giusto ricordare forse uno dei momenti liberali più alti della nostra storia repubblicana, quando Marco Pannella decise che la difesa dei diritti civili valesse davvero la battaglia “inconcepibile”: liberare Toni Negri dalle patrie galere, dov’era detenuto, e portarlo in Parlamento con i Radicali. Questo scrisse Marco, per spiegare quel gesto: «Lo Stato non può fare giustizia sommaria, tenendo in carcere per oltre cinque anni una persona senza processarla, accusandola, con dolo, di reati non commessi, violando tutti i principi del diritto e le garanzie poste a tutela dell’imputato. L’obiettivo della candidatura di Negri è quindi la modifica della legislazione speciale che, fra l’altro, consente una carcerazione preventiva di oltre dieci anni».
Il 25 Giugno 1983 Toni Negri venne eletto al Parlamento Italiano. Lo scrivente votò.

La risposta di Franco Debenedetti

Grazie, dottor Fusco, dei lusinghieri commenti. Chiederò a Prada di aggiornare lo sconto.
Ma su Repubblica la cosa è diversa. Sul Frecciarossa dànno un solo giornale per passeggero: non compro Repubblica dal giornalaio di Termini e per averlo la chiederò sul treno: a voce alta, che tutti sentano. E avrò risparmiato un pioppo. Ed eviterò che, se il Corriere fosse esaurito, non possa leggerlo come primo giornale come è da quando Paolo Mieli passò, in tempi preistorici, dalla Stampa al Corriere.
Per il non adorato ma molto amato fratello credo vada bene lo stesso.

Buona giornata.

Franco Debenedetti.

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