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Se le banche fossero senza le Fondazioni

Pubblicato il 29/06/2010 @ 11:30 in Giornali,Il Riformista


“Se non desta scandalo che il sindaco di Torino chieda a Sergio Marchionne di valorizzare gli stabilimenti della Fiat, non capisco perché sorprenda analoga richiesta a una grande banca”, dice Sergio Chiamparino. Una sua non felice intervista di Salvatore Tropea su Repubblica aveva strappato a Giuseppe Guzzetti, presidente della Fondazione Cariplo e dell’associazione delle fondazioni bancarie, parole insolitamente vibrate. Non dovrebbe succedere con la seconda intervista sullo stesso tema, quella con Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera di domenica. Ma si ritrovano le ambiguità concettuali che fin dall’origine attraversano il discorso su politica, fondazioni e banche.

Essendo di Sergio Chiamparino amico sincero, cittadino soddisfatto ed estimatore politico, riprendo il tema proprio rispondendo a quella sua domanda: marcare stretto Marchionne non desta scandalo perché non è stato il sindaco di Torino a nominare il capo azienda di Fiat, e neppure, per essere più precisi, quello di Exor. Rispetto a Fiat il sindaco è veramente terzo. Rispetto alla banca non lo è: ma è costretto a far finta di esserlo.

Se la Fondazione non controllasse la Banca non ci sarebbe problema. Se è lo statuto stesso della Fondazione a prevedere un ruolo centrale per le autorità locali, in primis per il sindaco di Torino, è non solo suo diritto ma dovere usare questo potere perché l’attività delle Fondazioni sia svolta a vantaggio delle comunità locali. Chi vota il sindaco di Torino esprime anche un giudizio su come ha usato questo suo potere perché la Fondazione preservi il suo patrimonio e spenda bene la quota di reddito che la legge le impone di erogare. La Fondazione, dice Chiamparino, la sua autonomia se la conquista con la sua credibilità. Marchionne, per restare nel paragone che ha scelto, si è certamente conquistato credibilità, ma ho il sospetto che gli Agnelli non abbiano dubbi che questa non equivale alla sua autonomia.

Se la politica “controlla” la Fondazione, e la Fondazione controlla la banca, la politica entra nella banca: inevitabilmente e in un certo senso necessariamente. Chiamparino trova ovvio che la politica non debba entrare nelle decisioni sul credito da erogare alle aziende: neanche gli Agnelli avrebbero interesse a interferire sulla scelta dei modelli. Sono ben altre le cose di cui sia loro che il sindaco non trovano affatto improprio parlare: quest’ultimo nel prosieguo dell’intervista ricorda, apertamente com’è suo solito, le opzioni alternative che erano sul tavolo, compresa quella di non fare alcuna fusione. Alla fine è prevalsa la fusione con Intesa. Ora “il vissuto della città” e Chiamparino stesso trovano quell’esito “problematico”. Ma quella decisione non la si sarebbe potuta prendere senza il voto favorevole della fondazione: chi aveva nominato il presidente dell’epoca non disse nulla?

Se Chiamparino candida un presidente della Banca (e magari verifica il gradimento a livello politico), è l’ ”abbiamo una banca” di fassiniana memoria. Se se ne disinteressa, non interpreta “il vissuto” della città” . O è la politica a mediare il rapporto tra i cittadini e le “loro” (nel senso proprietario del termine) fondazioni, oppure ci sono le fondazioni autoreferenziali, che si perpetuano per cooptazione, che giustamente non piacciono a Chiamparino. Non c’è una terza via, non c’è santo ( o suora, nel caso specifico) che tenga: quando si delega il diritto di nomina a chi ricopre cariche nelle cultura o nella società, sono quelle stesse cariche ad assumere una valenza politica. Non farebbe meglio Chiamparino ad unirsi a quelli che auspicano che le Fondazioni escano dalle banche?

Sarebbe nell’interesse delle Fondazioni. Non si dice quanto è costato, “garantire gli assetti azionari” delle banche, come somma del premio per la concentrazione di rischio e del costo opportunità per altri investimenti. Si sopportano i costi per detenere una partecipazione di controllo se si godono i benefici privati del controllo. Il nostro capitalismo, per garantirlo, non esita a ricorrere a strumenti inefficienti. Per le fondazioni, il beneficio del controllo è il dividendo politico, la rilevanza politica del ruolo che hanno assunto. Le fondazioni che hanno preteso l’autonomia dalla politica per sé e le proprie strategie, finiscono coinvolte da protagoniste di una partita politica. Il cerchio si chiude: ma il mitico “territorio” cosa ci guadagna?.

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