Se la banca arriva in redazione

novembre 22, 2006


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di Gad Lerner

Nell’ establishment italiano funziona così. Di fronte a un libro imbarazzante che denuncia la presenza anomala di imprenditori e banchieri nella proprietà dei giornali, in particolare del Corriere, e forse addirittura una degenerazione spionistica della contesa in atto per il suo controllo, figuriamoci, tutti quanti plaudono al coraggio dell’ autore. Salvo poi precisare sottovoce: sia ben chiaro che non ci si può far nulla.

Mica penserete che il sistema degli azionisti, collusi o rivali che siano, possa decidere un bel giorno, in preda a un impeto autolesionistico, di smontarsi da solo! E così l’ artefice della denuncia, nel nostro caso il vicedirettore ad personam del Corriere della Sera Massimo Mucchetti, incassa la sua dose di battimani pubblici e di sogghigni dietro le quinte. Vai avanti tu che mi viene da ridere. Troverà poi qualcuno pronto a schizzarlo di fango, magari su uno di quei giornali liberisti de noantri sovvenzionati dal contribuente per spiegarci che il carico fiscale è eccessivo (chiedono più tagli alla spesa pubblica, tranne che per i contributi statali ai giornali medesimi). Si vergogni il Mucchetti: scrive col dente avvelenato «solo» perché lui e l’ ex amministratore delegato della Rcs, Vittorio Colao, sono stati oggetto di intrusioni informatiche e illecita sorveglianza; senza ricevere solidarietà dalla direzione e dai colleghi, per via dell’ imbarazzante circostanza che gli spioni appartenevano alla security di uno degli azionisti più autorevoli del patto di sindacato Rcs (Tronchetti Provera). Ma l’ insinuazione non si ferma qui: Mucchetti nasconderebbe il suo doppio fine, che è quello di sostenere una parte della proprietà del Corriere (i banchieri Bazoli e Passera) contro l’ asse degli azionisti-rivali (Geronzi, Tronchetti, Della Valle, Montezemolo, Ligresti). Eccolo sistemato per le feste, il giornalista specializzato da vent’ anni nella lettura critica dei bilanci aziendali: come poteva pretendere, del resto, di divulgare ai lettori le cifre dei conti in rosso dei suoi azionisti eccellenti, senza che costoro reagissero presso chi di dovere? Il baco del Corriere (Feltrinelli, pagg. 182, euro 14) viene così ridimensionato a predica inutile sui vizi del capitalismo italiano, se non addirittura calpestato in una cinica chiamata di correo (suvvia Mucchetti, noi giornalisti siamo tutti un po’ mascalzoni, non pretenderai di essere diverso da noi). E invece questo libro va letto a mente sgombra dalle dietrologie. Lascia il segno perché non si limita a fotografare una realtà imbarazzante ma ne indaga le ragioni storiche fin dallo snaturamento proprietario operato dal fascismo ai danni del Corriere di Luigi Albertini. Nei decenni del dopoguerra le grandi famiglie del capitalismo privato daranno vita a un’ «economia di relazione» – come direbbe Alessandro Penati – provinciale e dunque ossessionata dall’ imperativo del controllo da preservare sulle aziende. Un controllo che in assenza di solide basi finanziarie si esercita anche per via monarchica, sovrastimando fino all’ esasperazione l’ importanza del fattore «immagine».
Telefonare in redazione da azionista pare sempre meno costoso che mantenere una reputazione immacolata. Proteggersi dalle insidie della concorrenza, della magistratura e della politica con una «buona stampa», in grado di condizionare le politiche governative, viene considerata un’ assicurazione sulla vita per cui vale la pena di immobilizzare risorse cospicue. Quattrini che investiti altrove renderebbero certo maggiori profitti ma non altrettanti vantaggi. Come spiegare altrimenti l’ anticamera che celebri imprenditori, costruttori, concessionari, banchieri sono disposti a sopportare pur di avere infine accesso – a caro prezzo – nel «salotto buono» di via Solferino? Con la speranza di forzare l’ immobilismo declinante del capitalismo italiano, Guido Rossi la primavera scorsa propose al governo di centrosinistra l’ abolizione per legge dei patti di sindacato. Una provocazione liberale molto più insidiosa per l’ establishment di un proclama bolscevico. Ma la dinamica interna al patto di sindacato Rcs descritta dal libro di Mucchetti evidenzia il pericolo di un’ ulteriore, pericolosa involuzione di sistema. Detto in estrema sintesi: assistiamo a una crescita dello strapotere delle banche, anche in redazione, man mano che l’ apparato creditizio espande la sua influenza sul comparto industriale del Paese e attua scelte più rilevanti per il Paese di molti provvedimenti governativi. Non c’ è da stupirsi che alcune banche vengano già percepite come strani attori politici, superdotate come sono di enormi risorse finanziarie e al tempo stesso di risonanza mediatica. Chiede, con ragione, Mucchetti, a partire dalla presenza di Mediobanca, Intesa e Capitalia al vertice di Rcs: non sarebbe il caso di riproporre quella netta separazione fra banche e aziende editoriali invano propugnata da Carlo Azeglio Ciampi? Il pericolo di un effetto a catena è di quelli potenzialmente esiziali alla nostra democrazia: se non si pone un limite, qualsiasi attore economico-finanziario riterrà conveniente, se non doveroso, dotarsi prima o poi di un «suo» braccio giornalistico. Tutti folgorati dal sacro fuoco dell’ informazione, naturalmente per spirito di servizio e per passione. Da ultimo pure l’ immobiliarista Danilo Coppola s’ è comprato il giornale economico, Finanza e Mercati, non si sa mai. La famiglia Angelucci, protagonista nel business delle cliniche private, per prudenza di giornali ne ha acquisiti due: uno di destra, Libero, e uno di sinistra, Il riformista. è utopia sperare che, nel pieno rispetto delle libertà di mercato, il governo faccia qualcosa per disincentivare l’ affollamento nelle proprietà dei giornali di soggetti che mirano assai di meno agli utili editoriali, e assai di più alla protezione di affari o carriere concentrati altrove? Massimo Mucchetti conclude la sua indagine sul baco del Corriere auspicando che i più responsabili e ambiziosi tra gli azionisti concordino infine quel necessario, lungimirante passo indietro. Non per sfiducia ma, diciamo così, a supporto del suo auspicio, spetterebbe alla politica di incoraggiarli garbatamente. Perché Mucchetti ci ha dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio che il conflitto d’ interessi non esiste solo in televisione.

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