Se il Web va in Borsa

febbraio 19, 2012


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di Massimo Mucchetti

Facebook è valutato tra i 75 e i 100 miliardi di dollari, con 3,7 miliardi di fatturato, 1 miliardo di utile e 3200 impiegati, mentre la Boeing capitalizza 56 miliardi, ha un utile di 4 e dà lavoro a 16o mila persone. Mucchetti si interroga perplesso sulla “cattiveria” intrinseca di Facebook nei confronti della Boeing che dà da lavorare a tanta gente in più. Ma se ci mettessimo dalla parte degli azionisti il discorso sarebbe semplice. Facebook è meglio organizzato e produce più ricchezza con meno persone. Mucchetti pagherebbe 4 idraulici quando ne potrebbe pagare solo uno?». Trascrivo questa mail di Giuseppe Vatinno, responsabile nazionale dell’Api, perché sollecita alcuni chiarimenti.

Vatinno ha ragione: l’economia può essere osservata dai diversi punti di vista. Tra questi, quello dell’azionista. Ma si può dare per buono che si valuti una società 75-100 volte gli utili? Facebook ha solo 8 anni di vita. E dunque può crescere, ancorché sul quantum le opinioni divergano. Ma un dirigente politico può dimenticare la speculazione di 12 anni fa sulle dotcom, un inganno che arricchì i furbi e penalizzò il risparmio? I partiti giovani e l’Api lo è non diventano nuovi solo perché smemorati. Come si può considerare equivalente, perciò paragonabile, la ricchezza cartacea espressa da titoli azionari e quella reale, fatturata su merci e servizi?
Ma l’editoriale con cui polemizza il dirigente rutelliano aveva un altro focus. Lungi dall’attribuire cattiverie a Facebook, abbiamo scritto che la Borsa non esaurisce un Paese. Politici e giornalisti dovrebbero considerare il Paese e il Cittadino, e solo dopo l’Imprenditore, il Lavoratore e l’Azionista. Tutti i modelli d’impresa, da Facebook a Boeing, possono e devono coesistere. Ma ci dobbiamo pur chiedere dove andrà l’Occidente se il mercato dei capitali privilegia un social network al primo costruttore di aerei al mondo. E allora, accanto alle distorsioni del mercato finanziario che dirotta i denari dall’economia reale a quella immaginaria, ecco un fenome-no più profondo e inquietante da capire e contrastare: il divorzio tra produttività e occupazione, alimentato dal web che genera Pace-book ma rivoluziona pure i processi produttivi di Boeing, che lancia Google e fa spostare l’ingegneria e le analisi mediche dall’America e dall’Europa all’India. Negli Usa, osserva James Manyika del McKinsey Global Institute, l’ultimo decennio è stato il primo che ha visto aumentare la produttività e calare l’occupazione. Fatto 100 il 1980, produttività e occupazione crescono assieme fino a quota 135 attorno al 1998. Poi la prima sfonda quota i6o nel 2010, mentre la crescita dell’occupazione rallenta, si porta a quota 145 nel 2007-2008 e poi scende sotto 14o nel 2010. E quella che va contraendosi è l’occupazione a media e alta specializzazione nel settore dei servizi, perché, come quella industriale, può essere anch’essa trasferita in Paesi emergenti con analoghe competenze e costi inferiori. L’Azionista ne sorriderà compiaciuto, ma il Politico può accettare la prospettiva di una società senza più ceto medio, fatta di finanzieri, marketing manager e di servizi, per lo più di base, alla persona?

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