Se il «bail-in» è il vero prezzo per l’Unione bancaria

gennaio 8, 2016


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


«Perché gli investitori retail sottoscrivono titoli che non remunerano il maggior rischio anche quando è riportato nel prospetto informativo?» si chiedeva Consob chiudendo il suo rapporto (n.67 del 2010) sulle obbligazioni bancarie. Perché gli italiani comprano prodotti illiquidi e più rischiosi che rendono 90-100 punti base in meno dei BTP di durata superiore a un anno?

L’han fatto per anni, decine di volte più degli altri Paesi europei, arrivando a pesare nel loro portafoglio complessivo oltre il 10%. Il valore assoluto cumulato di quanto gli è costato questo minor rendimento sulla massa delle obbligazioni emesse tra il 2010 e il 2013 è di molti miliardi di euro. Un bel regalo per le banche, che potevano fare carry trade coi titoli di Stato, un bel vantaggio per il Tesoro, che poteva piazzare i suoi titoli in mani amiche.

Il rumore suscitato dall’effetto dall’intervento di risoluzione su azioni e obbligazioni subordinate delle “Quattro Banche” ha fatto perdere di vista la reale portata dell’entrata in vigore della Direttiva Bancaria BRRD. Dove la prima R (Recovery) indica gli interventi atti ad evitare la seconda (Resolution), quella dell’ormai famoso bail-in. Ad esempio solo pochi giorni fa, la Bce fa ha richiesto alle banche sistemiche di alzare i livelli minimi di patrimonio di garanzia di 50 punti base dal 2015 al 2016. Con la BRRD l’Autorità di risoluzione può ordinare di sospendere o cancellare le cedole delle obbligazioni, impedire la distribuzione di dividendi, imporre aumenti di capitale, rimuovere il management bancario; in periodici “recovery plan” può prevedere chiusura di filiali, riduzione di personale, aumento delle commissioni bancarie. Già l’ha già fatto: poche settimane fa ha cancellato il pagamento degli interessi su un bond perpetuo emesso da Carige.

Per emettere nuove obbligazioni, le banche dovrebbero offrire rendimenti che riflettano rischio e illiquidità: ma non c’è spazio nel conto economico per un aumento dei costi della raccolta. Nella seconda metà del 2015 le emissioni nette di obbligazioni non garantite delle banche italiane sono state negative per quasi 6 miliardi, i rendimenti a cinque anni sono aumentati di circa 60 bps: per Banca d’Italia (Rapporto Stabilità Finanziaria, 2/2015) ciò potrebbe riflettere sia l’aumento del costi d’emissione, sia il rischio di coinvolgimento nel bail-in.

Con questo movimento tettonico, il mercato bancario si è diviso in due. Da un lato le banche maggiori, che possono compensare l’aumento del costo della raccolta con maggiore efficienza operativa, oppure aumentando le commissioni per i servizi prestati, e le banche a rete, che raccolgono risparmio e lo gestiscono senza metterlo nel proprio attivo, quindi sono meno esposte ai rischi di deterioramento degli impieghi. Dall’altro le banche più deboli, che hanno scarso accesso al mercato all’ingrosso dei capitali e rischiano di vedersi prosciugare una fonte di raccolta a buon mercato; quelle poi che C.A. Carnevale Maffè chiama «banche a chilometro zero», raccolta locale e impieghi locali, difficilmente troveranno un proprio spazio senza una radicale riforma di modello organizzativo.

C’è da lamentarsi? A ben vedere no. La BRRD è il prezzo da pagare per l’Unione bancaria, il pilastro essenziale, insieme all’euro, della costruzione europea e del funzionamento del mercato unico. Sapevamo che perdevamo la sovranità bancaria: speriamo di guadagnare la concreta possibilità per banche e imprese di accedere a tutto il mercato europeo dei capitali, nel quadro della Capital Markets Union.

Evitare che ai risparmiatori vengano rifilate obbligazioni a tassi che non riflettono il rischio (quando va bene), dicono di volerlo Governo, Banca d’Italia, Consob.

Sull’anomalia italiana dell’assenza di un canale non bancario di finanziamento del credito, si sono tenuti convegni e scritti paper a dozzine: con la Capital Markets Union, si accelererà l’evoluzione verso un modello del credito molto meno “bancocentrico” dell’attuale.

Certo, i problemi son grossi: ma li hanno le banche di tutto il mondo che, come si scriveva poco fa su queste colonne, nel solo 2015 hanno ridotto gli organici di 100.000 persone, dopo aver tagliato del 10% la loro base di costi nei sette anni precedenti. Nello stesso periodo in Italia, circa 40.000 i dipendenti sono usciti dal sistema bancario e l’incidenza dei costi del personale sul totale dell’attivo si è ridotta di un quarto (Banca d’Italia, Rapporto Stabilità Finanziaria, 1/2015).

Ci sono molti processi che creano valore e che sono dotati di barriere all’ingresso: dal welfare, al ruolo di agente fiscale, alle filiere delle piccole e medie industrie, all’uso dei metadati. Forse il timore del bail-in può essere lo stimolo per scoprirli. Altro che chiedere moratorie: siamo già in ritardo.

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