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Se 25 firme per una prepagata non vi sembran troppe

Pubblicato il 25/07/2013 @ 09:28 in Giornali,Huffington Post


25 firme su documenti per un totale di 37 facciate, fitte di sezioni, articoli, commi. Le ho dovute apporre per avere dalla banca dove ho un conto da 10 anni, una carta di credito prepagata. L’impiegato allo sportello mi passava i fogli salmodiando “questa per la privacy, questa per l’antiriciclaggio, questa per la banca”, e io firmavo alla cieca: ci avrei messo almeno un’ora a leggere le 2500 righe dei 30 articoli del “contratto”.

A chi serve? A me no di sicuro, non mi sento protetto dalle firme che ho messo, anzi firmare alla cieca mi dà disagio. Alla banca? Dovrei leggere i fogli che ho firmato per sapere in che modo avrei potuto danneggiare la banca se non mi fossi impegnato a non fare o a non pretendere certe cose. Il ricavo per la banca è 9,90 € l’anno, più 1€ per ogni ricarica. Se contiamo la carta, i dossier, gli scaffali, gli archivi, e i relativi impiegati, quanto le resta?

Ora c’è la notizia che i bar potranno mettere il wi-fi a disposizione dei clienti senza dovere fotocopiare la loro carta d’identità, o avere un computer su cui registrare e conservare il luogo fisico dove risiede il computer (portatile!): ma solo per un pelo non ha vinto l’Ucas, l’Ufficio complicazioni Affari Semplici (Beppe Severgnini sul Corriere) si è battuto fino alla fine per confermare la legge Pisanu emessa all’indomani dell’attacco alla torri gemelle (e poi ci lamentiamo se gli americani, non fidandosi, hanno montato il Prism) .

Poche settimane fa c’è stato il questionario di una trentina di pagine inviato dall’Inps a tutti i pensionati, che non possono neppure cavarsela mettendo una firma senza capire come ho fatto io. Dei documenti per la privacy non è più neanche spiritoso farne beffe: ma ogni volta che mi sento dire “per la privacy” penso al “per le missioni” biascicato dal sacrestano all’uscita dalla chiesa.

Penso alle mie 25 firme, e mi chiedo: quante sono le firme richieste e conservate dalla mia banca, e da tutte le banche, e per tutti i tipi di carte; e per tutti i contratti, per le assicurazioni, per gli affitti; per tutti i wi-fi che abbiamo avuto e rischiato di avere ancora? Per tutte le pensioni, per tutti gli alberghi, per tutti gli uffici comunali, provinciali, regionali, per tutti i ministeri? E l’Italia, come nelle foto dai satelliti, mi appare ricoperta invece che di nubi sparse, di strati di carte, e immagino i tanti lillipuziani che le spostano, le ordinano, le archiviano.

Credo che “l’Italia di carta” abbia a che fare col fatto che anche la “spending review” rischia di diventare una giaculatoria, come lamentano gli editoriali di Panebianco, di Alesina e Giavazzi. Quello che succede con la banca succede con la pubblica amministrazione. Che pure fa corsi di aggiornamento per l’analisi costi benefici, per la reingegnerizzazione dei processi (chissà se ai docenti fanno firmare contratti di 30 pagine, e agli allievi quelli sulla privacy).

Perché non posso avere la carta prepagata con un click, come i libri di Amazon? Eppure anche quelli sono contratti. Anche per oggetti più cari il commercio online funziona con semplicità. Perché no? Nel caso delle carte prepagate, per il principio della “trasparenza obbligatoria”, in omaggio al quale l’autorità di regolazione obbliga la potente banca a rendere edotto il povero cliente di tutto quello che gli può capitare: dopo di che, l’autorità si è protetta, la banca pure, e se il cliente non legge le 2500 righe, affari suoi. E se l’Italia soffoca sotto le carte, affari nostri.

Il rispetto dei contratti è il fondamento dell’economia di mercato, la logica dei ragionamenti giuridici mi affascina. Ma questa è una partita squilibrata: chi decide, o fa decidere, di far firmare le 2500 righe, non ci perde nulla, si lava le mani, e ci guadagna in potere. E così i governi che fanno le leggi, i ministeri che fanno i regolamenti. Si parla di interessi, e si pensa a quelli economici: ma quelli culturali non sono roba da poco. È questa mentalità, diffusa e connessa, quella contro cui si insabbiano i volonterosi artefici delle spending review. Correggerla è, per importanza e rilevanza, un compito pari a una modifica costituzionale.

Forse sarebbe davvero una modifica costituzionale. Tant’è vero che, a quanto si dice, discutendosi nell’apposita commissione di riforma sulla proposta di una certa forma di governo, c’è chi ha osservato che essa avrebbe come conseguenza il taglio di oltre 10.000 leggi: considerando questo un argomento decisivo per non scartarla a priori. Per dire quanto profonda e ramificata sia una certa cultura.

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