Sadiesfaction

novembre 16, 2011



Sadiesfaction
Seduzione, economia, arte

di Angelo Capasso
Due Punti Edizioni
2011, pp. 315


Intervento di Franco Debenedetti alla presentazione del libro

Rispetto al mondo economico, l’artista può essere soggetto od oggetto. Soggetto lo è in quanto produttore di un’opera che ha un valore, che entra nel mercato dove viene scambiata, in competizione con altri oggetti. Questa destinazione è presente nella mente dell’artista, che si pone in relazione con i potenziali acquirenti e con il sistema in cui essi operano. Lo era quando il pittore oleografico accarezzava i gusti più retrivi dei suoi potenziali clienti, lo è per l’artista di avanguardia che con la sua opera vuole rivoluzionare i rapporti sociali in cui si inserisce e i meccanismi di mercato attraverso i quali la sua opera può essere conosciuta. Questo perché l’opera d’arte intende darci una visione del mondo diversa da quella usuale, sia che voglia pacificare e rassicurare, sia che voglia rivelare e inquietare.

“In tutto il percorso che l’arte ha segnato nel Novecento, scrive Capasso, il riferimento tra arte e economia assume un carattere sostanziale con il lavoro di Beuys che interpreta perfettamente le questioni sollevate dalla necessità di una totale liberazione della cultura occidentale dall’essere soggiogata da questioni utilitaristiche, dove ogni atto quotidiano assume un valore monetario. Beuys ha trattato di economia in tutto il suo lavoro, come farebbe un economista inteso a liberare l’Occidente dall’angoscia del capitale, del profitto, come un neomarxista sostanzialmente cultore attento dell’antropologia e delle scienze sociali”.

Teige, aveva intuito il paradosso per cui i mercanti, compresa abbastanza presto la sterilità dell’arte accademica, avevano preso ad acquistare “opere sorte originariamente in netta opposizione al pubblico borghese”; quello per cui “frequentare i vernissages degli estremisti più scandalosi è un’abitudine da gente distinta”. Ma accanto al paradosso del collezionista che compera un’opera fatta con lo scopo di distruggere la proprietà privata, c’è quello dell’artista “rivoluzionario” che alimenta il circuito della proprietà privata con le proprie opere, e ne fruisce i ricavi. Il paradosso di fondo è quello di un’opera che l’artista realizza per il suo valore d’uso, perché strumento per intaccare l’ideologia borghese, e che acquista un valore di scambio soddisfacendo il borghese che desidera possedere quell’opera proprio per la violenza che esprime e per le inquietudini che suscita.

La maggior parte del libro è dedicata a scavare in questo rapporto tra l’artista e il mondo economico. Si è detto di Beuys; Capasso ricorda il film di Jimmie Durham The pursuit of happiness, parodia del rapporto tra l’artista e il suo gallerista mecenate industriale californiano, che è per lui necessità inevitabile, e che odia profondamente, fin a volere distruggere la stessa vita che quel sistema economico impone. Dreams that money can buy, film di Hans Richter degli anni 40, è un film sul desiderio, sui suoi meccanismi nascosti, sulla possibilità che i sogni diventino oggetto e che i soldi ne diventino il controvalore. For the love of God viene acquistato da un consorzio, praticamente da Damien Hirst stesso, a un prezzo stratosferico, cosicché la “promozione dell’artista riproduce le dinamiche della promozione di un grande brand commerciale”. Ne L’amico americano di Wim Wenders il mezzo per fare salire i prezzi è la morte simulata dell’artista. “Questo è il problema della mercificazione: la caduta a merce dell’opera d’arte, assorbita non per la sua qualità, ma per il puro valore di quantità e di appartenenza a quel mondo mitico che è quello della creazione artistica”.

Con la Pop Art i supermercati sono i musei di oggi: “fare la spesa viene elevato ad una forma d’arte, e al contempo i veri collezionisti di arte vengono trasformati in normali clienti di un supermarket, che classifica i propri prodotti/opere, colloca ogni oggetto in installazioni temporanee finalizzate alla strategia di marketing e di comunicazione, alla loro lettura estetica. […] Nel museo di Andy Warhol passano gli oggetti del presente esuli dalla storia, la Gioconda, la Coca Cola, un ritratto di Mao, la sedia elettrica, Marilyn.”

Non è solo l’artista contemporaneo che è cosciente del valore commerciale delle proprie opere. Michelangelo é l’artista più pagato della sua epoca, il Parmigianino viaggia con una piccola anamorfosi come propria credenziale, Caravaggio fugge per mare con sue opere. De Chirico continua a produrre le stesse opere perché i galleristi gliele chiedono, e diventa un piacere sottile per lui assecondarli. Manzoni vende la merda d’artista, Wim Delvoye vende la macchina che produce merda artificiale. In una sorta di gioco a rimpiattino, se l’opera è sul mercato come merce, sarà produzione di merce attraverso le merci: dall’orinatoio di Duchamps, che ancora rivela realtà e metafore sconosciute (l’orinatoio – Fontana, R.Mutt – Mutter), all’oggetto in quanto tale, alla firma che lo autentica, alla parola che lo connota, all’idea che lo pensa, come nell’opera sentenza di Douglas Hubler: “Questo non è un punto, ma l’ombra di un punto la cui locazione è solo nella mente del percipiente”. Se sul mercato tutto si vende, Damien Hrst fa un’opera talmente costosa che nessuno la può comperare (a quel prezzo). Maurizio Cattelan mette in vendita il proprio spazio aperto durante la Biennale del 1995, concedendola ad un marchio di profumo. Nel padiglione danese Elmheen & Dragser cedono lo spazio d’artista al collezionista stesso: Collector è una casa, e l’agente immobiliare illustra le vicissitudini e i drammi della famiglia, del tutto anonima, che vi abitava, insieme alle opere di artisti di grido. Nella storia dell’arte abbondano esempi in cui il committente viene rappresentato, da solo o con moglie, figli e financo nani di corte, oppure all’interno di scene sacre: ma per il duo danese il collezionista non è più il modello, é l’oggetto di studio da parte dell’artista; la questione dell’economia libidinale dell’arte come forma di ossessione al collezionare.

Questo per quanto riguarda l’artista soggetto: ma il mercato dell’arte – quindi l’arte, almeno dalla rivoluzione borghese in avanti – non potrebbe esistere senza l’altra figura, quella di che compera l’arte, il collezionista. Rispetto al collezionista l’opera, e quindi in qualche misura anche chi la produce è oggetto. Perché si compera l’opera d’arte? Perché esistono i collezionisti? “Secondo gli stilemi classici di analisi, artista e collezionista instaurano una relazione primaria, cui si aggiunge una terza figura quella del critico….Un dialogo bifronte: da una parte si instaura una relazione culturale tra l’artista e il critico, che diviene suo lettore ed esegeta (psicoterapeuta lettore dei suoi sogni) dall’altra una relazione economica, quella tra artista e collezionista”.

Il collezionista è insieme all’artista, l’altro polo del desiderio. Dreams that Money can buy: è lì che si forma la tensione che produce l’arte contemporanea. Perché “la pittura e la scultura tradizionali ritornano come feticcio di una cultura superata dalla storia. Le nuove sculture e i nuovi lavori di pittura nascono direttamente per essere oggetti da collezionare, pongono al centro la questione del collezionismo come questione sostanziale per la sopravvivenza dell’arte”.

Il collezionista è potenzialmente un perverso, la sua è una evidente condizione sadomasochistica. C’è l’eros che vuole godere possedendo, la pulsione erotica a possedere e a collezionare, e c’è il thanatos, il piacere-sofferenza anale di separarsi da un bene infinitamente fungibile per una scelta irreversibile e arrischiata.

“L’economia è entrata nell’arte con il principio dell’avanguardia, quando cioè si è posta, a differenza del cinema, non come un prodotto per la collettività, ma come oggetto per la collettività, e quindi come oggetto economico”. Chi lo capisce per primo è Daniel Henry Kahnweiler: si specializza nel Cubismo, ne detiene l’esclusiva, gestisce gli artisti, è market maker. Mes galérie et mes peintres è il primo manuale sull’arte di fare il mercante. Con gli anni 80 il professionismo dei collezionisti conduce a una serietà e moralità dove il sesso non è più una liberazione collettiva: l’arte come l’economia è un mondo di investimenti di somme ingenti di danaro. E’ un mondo che vive meno di passioni e più di tensioni, né più né meno come nel mondo dell’industria, della politica, della finanza.

E veniamo così alla questione centrale: qual è il valore di un’opera d’arte contemporanea? L’opera d’arte è priva di valore d’uso, dice Capasso: “la differenza tra gli oggetti che si trovano sul mercato industriale e le opere d’arte, è che i primi hanno un valore d’uso e un valore di scambio, le seconde hanno invece solo un valore di scambio che si fissa sulla base della fluttuante legge del desiderio”. E’ vero? Dipende da quello che consideriamo bene d’uso: è solo per potere isolante e leggerezza che viene acquistato un cachemere di Zegna, e per la scurezza nei sorpassi una Ferrari? E’ solo feticismo della merce? L’arte non è inutile, contrariamente a quanto scrive Capasso. Non lo è neppure quella che entra in collezioni pubbliche permanenti o temporanee, le file al Moma o a mostre temporanee sono di persone che si attendono di ricavarne una rappresentazione della contemporaneità. Solo in un senso molto lato il biglietto di ingresso è il valore di scambio di una visita. La smaterializzazione riguarda tutti gli oggetti d’uso, il peso sempre crescente della componente immateriale serve per ricercare equilibri diversi tra domanda e offerta, mentre la tecnologia riduce le economie di scala e rende possibile il market of one, la personalizzazione del prodotto che aumenta il valore d’uso simbolico senza sensibilmente aumentare il valore di scambio. L’iPhone viene acquistato per le apps, e il costo di fabbricazione è una frazione modesta del suo prezzo.

Forse è la negazione di un valore d’uso per l’opera d’arte la ragione per cui Capasso neppure nomina L’Opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica che pure è stato un libro importante. Infatti Walter Benjamin intende attaccare l’arte capitalista, e quindi fa l’operazione inversa, cioè sottrae l’aura che è il valore di scambio: il valore (d’uso) espositivo é quello che l’opera assume nella modernità grazie agli strumenti di riproduzione meccanica che la rendono accessibile a tutti in ogni momento e in ogni luogo; il prodotto artistico accoglie quel sentire dell’uomo moderno di fronte ad una cultura che andava perdendo l’istanza di ‘totalità’ in virtù di una auspicabile diffusione democratica del sapere.

Invece il liberista trova in questa cavalcata, dalla Fountain a Cloaca, un’altra manifestazione della capacità di scoperta del mercato. Scoperta dei prezzi, ma soprattutto di modi di creare valore. Se la riproducibilità tecnica disperde il valore dell’aura, il mercato scopre il modo di dare valore agli oggetti prodotti in serie; oppure sfida la tecnica nella sua stessa capacità di riproduzione veristica; oppure si smaterializza fino a ridursi all’idea di un punto. Se Elmgree & Dragset fanno sparire il desiderio del collezionista, è la loro visione apocalittica a diventare oggetto di desiderio. L’opera d’arte diventa una sorte di derivative sull’arte, costruito su misura per i collezionisti sull’opera d’arte. In perfetta corrispondenza a un mondo in cui l’economia si smaterializza nella finanza, la finanza fornisce risorse a qualsiasi attività economica: che abbia, o prometta di avere un’idea.

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