Risposta ai merkeliani e agli economisti che sposano la linea moralista

ottobre 2, 2013


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di Sergio Cesaratto

Siamo d’accordo con quanto afferma Franco Debenedetti, sul Foglio di venerdì scorso, nel suo commento al “Monito degli economisti”, l’appello pubblicato sul Financial Times lo scorso 23 settembre e poi presentato in un’intervista al Foglio dall’economista Riccardo Realfonzo: le vicende e le leggi economiche non si ripresentano meccanicamente nella storia, la quale risulta da un intreccio complesso fra economia e scelte politiche. Si riafferma una banalità nel sostenere che, tuttavia, l’evocazione attenta degli eventi storici è fondamentale per avere una guida alle scelte correnti. E Debenedetti converrà con noi che le scelte politiche non possano svolgersi senza riguardo ad alcuni principi economici di fondo.

Lo ammettiamo persino noi che non condividiamo la visione rigida dell’economia, propria dell’impostazione neoclassica dominante, e la vediamo invece come terreno entro cui ampia è la gamma di scelte politiche possibili, fra le quali prevarranno quelle sostenute dagli interessi più forti di gruppi sociali o di stati.
Il riferimento alle vicende economico-politiche che seguirono il Primo conflitto mondiale è stato una costante durante la presente crisi finanziaria. Viene a proposito considerata una fortuna che presidente della Federal reserve americana fosse Ben Bernanke, uno studioso della crisi degli anni Trenta e che degli errori compiuti durante quegli eventi ha saputo fare tesoro. L’errore fondamentale fu allora di guardare alla crisi come occasione di “risanamento” attraverso politiche monetarie e fiscali restrittive che aggravarono la recessione. Questa lezione è stata tuttavia poco appresa in Europa, dove hanno prevalso le convenienze economiche tedesche e l’inadeguatezza politica e intellettuale delle classi dirigenti degli altri paesi.
Debenedetti sembra ritenere che chi denuncia questa inadeguatezza drammatizzi le conseguenze delle politiche di austerità. A noi sembra che, invece, sia ancora scarsa la consapevolezza nella classe dirigente della china su cui si è avviato il paese, fatta di deindustrializzazione e impoverimento. La china è certamente resa più drammatica dall’instabilità politica, ma non può essere furbescamente attribuita a quest’ultima.
Concordiamo con Debenedetti che i problemi dell’economia italiana vengano da lontano – anche se divergeremmo sicuramente nella loro identificazione puntuale. Certamente l’ingresso nella moneta unica non ha costituito quella sferza alla modernizzazione del paese che qualcuno ingenuamente si aspettava, rappresentando invece una cornice in cui la crescita si è andata progressivamente inaridendo. Privi di una Banca centrale, il nostro debito pubblico è alla mercé di una Banca centrale straniera (la Banca centrale europea presieduta oggi da Mario Draghi) che potrebbe, se così le fosse imposto, ridurre drasticamente i tassi di interesse (i quali – non ci stancheremo mai di ripetere – sono fatti dalle Banche centrali).
Eppure le vicende del sistema monetario europeo (Sme) dovevano ammonirci delle sofferenze in cui saremmo incorsi con cambi irreversibilmente fissi coi tedeschi. Dallo Sme potemmo fuggire nel 1992 raddrizzando i nostri conti con l’estero (senza conseguenze inflazionistiche), ora siamo in un bel guaio.
In questo contesto, e poiché subiamo la quotidiana reprimenda moralista dei governanti tedeschi che ci dipingono come lazzaroni, il riferimento alle vicende del debito di guerra tedesco nell’ambito del “Monito degli economisti” non ci appare fuori luogo.
Ricordare a quel paese come l’atteggiamento estremamente punitivo tenuto da alcuni paesi vincitori fu foriero dell’avvento del nazismo, e come anche in virtù di questa lezione esso fu trattato con enorme magnanimità dopo il Secondo conflitto non è solo (nobile) esercizio retorico, ma ci aiuta grandemente a interpretare politicamente le vicende correnti, e soprattutto gli errori in cui pervicacemente si incorre.
L’Unione monetaria europea (Ume) è stata un errore – viepiù la si sta realizzando – in violazione di elementari princìpi economici che vedevano nella flessibilità dei cambi uno strumento essenziale di aggiustamento economico fra regioni economicamente diverse. La sprovvedutezza dei leader europei, scambiata per lungimiranza europeista, e l’ideologismo degli economisti monetaristi europei che vedevano nell’Ume un elemento disciplinante fecero il pasticcio. Eminenti studiosi accostano l’Ume al gold standard, il cui abbandono costituì parte dell’uscita dalla grande crisi degli anni Trenta. Un altro monito della storia.

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