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Resistenti e riformisti, differenza di stile

Pubblicato il 10/01/2003 @ 13:54 in Giornali,Panorama


La spaccatura nel centrosinistra parte da lontano: è una questione di terminologia

A volte anche la parola, come la “bocca baciata” cantata da Fenton nel Falstaff verdiano, “non perde ventura, anzi rinnova come fa la luna”. E’ il caso di “riformisti”, un’espressione che a Mario Pirani su Repubblica, nella sua recensione del nostro “Non basta dire no!” (Mondadori, 2002), appare logorata dal tempo, e resa ambigua dai molti usi a cui l’ha piegata oltre un secolo di storia.

Ma, di fronte alla spaccatura apertasi in questi giorni nel centrosinistra sul tema delle riforme istituzionali, “riformisti” sembra la parola più adatta a indicare quelli che pensano che, per il bene del Paese e per le fortune dell’opposizione, si debba comunque provare a discutere con una maggioranza democraticamente eletta. Le riforme istituzionali sono un detonatore particolarmente potente, perché toccano il modo con cui i cittadini attuano il loro diritto di eleggere chi li governa; ma il dibattito intorno ad esse ha solo allargato una faglia preesistente, che attraversa il centrosinistra dall’inizio delle legislatura, tra chi pensa a come “essere” opposizione e chi a come “fare” opposizione, tra chi cerca di isolarsi nella propria alterità e chi di convincere della propria affidabilità. Tra chi considera che l’elemento unificante dell’opposizione debba essere la resistenza a tempo indeterminato a un regime che si è instaurato, o sta per, o potrebbe instaurarsi, e chi invece pensa debba essere una proposta politica capace di conquistare la maggioranza degli elettori alla prossima tornata elettorale: e le riforme di cui questo paese ha bisogno sono, di questa proposta, l’ossatura portante.

“Riformisti” sono, letteralmente, quelli che vogliono le riforme; quelli che le vogliono oggi, non all’epoca di Turati o di Nenni. Quelli che, in nome delle riforme, non pensano che a chi ha votato la Cirami sul legittimo sospetto e si appresta a votare la Frattini sul conflitto di interessi, si debba opporre solo la propria totale, inossidabile, radicale diversità.

Quella tra “resistenti” e “riformisti” è la spaccatura originaria; quella che rende più evidenti le tante divisioni che attraversano il centrosinistra, e che sono sotto gli occhi di tutti; quella che le perpetua impedendo che le differenze si compongano. In tutte le formazioni politiche, in particolare in ampie coalizioni, le opinioni si distribuiscono su un asse i cui estremi si è soliti indicare con destra e sinistra. La spaccatura tra “resistenti” e “riformisti” viene prima, è “ontologica” più che politica, solo parzialmente coincide con la differenza tra la destra e la sinistra dell’opposizione: molti infatti sono i conservatori tra i “resistenti”, e alcuni “riformisti” hanno opinioni assai radicali.

Io credo che la linea resistente danneggi il centrosinistra e allontani il momento della riconquista del governo. E questo non (solo) perché le elezioni si vincono conquistando il centro (e chi lo trova insopportabile, ricorda Giovanni Sartori sull’Unità del 6 Gennaio, è come se trovasse insopportabile la geometria euclidea: si chiami pure Cofferati) e il centro dell’elettorato italiano è moderato e vuole riforme moderate, ma per una ragione più profonda: e cioè che chi erge mura e scava fossati per evitare di contaminarsi, chi si isola per esaltare la propria diversità, chi in nome di una lotta di civiltà attende soluzioni extra –ordinarie (la piazza, o i magistrati, o Bruxelles, o i conti pubblici), nutre sfiducia nella propria possibilità di farcela da solo. E come può sperare, chi non ha fiducia in sé, di ottenere la fiducia per sé?
Non ci si stancherà mai di ripeterlo: il vero problema è ritrovare la via della crescita. E’ il problema dell’Italia, purtroppo è anche il problema dell’Europa, del modello europeo. Un paese può ritrovare le vie della crescita solo se c’è un consenso generale su alcuni temi – regole, valori, obbiettivi – di fondo. Non le ritroverà di certo se la spaccatura, partendo dalle sedi della politica, dovesse attraversare l’intero corpo sociale: ed è invece proprio questo che vorrebbero alcuni “resistenti”. I riformisti non temono che l’identità del centrosinistra ne esca confusa agli occhi degli elettori; non ritengono di essere stati mandati in parlamento solo per testimoniare la propria diversità. Non per cinque anni. Tantomeno per altri cinque.

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