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Rai, con il canone non si va in rete

Pubblicato il 18/04/2000 @ 13:13 in Giornali,Il Sole 24 Ore


I 2500 miliardi riscossi dagli abbonati creerebbero problemi di concorrenza sui nuovi mercati

Per tutti i produttori di contenuti la net economy costituisce una discontinuità. In alcuni casi è una discontinuità rappresentata dal­l’ingresso in nuovi mercati: da Bertelsmann a Mediaset, da Hachette al gruppo Espresso sono molti i fornitori di contenuti che puntano a diventare anche fornitori di servizi. In altri casi la discontinuità riguarda la proprietà che passa di mano grazie alle immense risorse finanziarie rese accessibili alle internet companies: è il caso di Time-Warner acquistata da Aol o di Broadcast.com pas­sata a Yahoo! Il mutamento investe con forza anche Rai, la maggiore società editoriale italiana, e la porta fuori dal suo tradiziona­li perimetro di attività, la televisione generalista, verso nuove aree operative dove la competizione è più acuta di quella codificata nel duopolio, la creazione di valore si svolge secondo criteri differenti e gli attori sono più numerosi e dotati di tasche molto profonde.

La costituzione di Rai Sat e Rai Net, le ipotesi di uno scambio di partecipazioni fra quest’ultima e Seat Tin.it, i ripetuti sondaggi per accordi con alcuni dei partecipanti alla gara Umts sono gli eventi li maggior rilievo accaduti di recente.
Questa svolta, decisiva per il futuro dell’azienda, ma anche per le sorti della net economy italiana di cui Rai è uno dei potenziali protagonisti, pone due importanti questioni di principio: quale rapporto si instaura fra le attività sui nuovi mercati e l’attività tradizionale (la televisione generalista di servizio pubblico) che ha caratteri molto peculiari; in quali modi Rai può valorizzare nel modo migliore e senza provocare lesioni competitive i propri contenuti, ovvero il principale asset di cui dispone.
Bisogna ricordare, in partenza, che Rai è un soggetto del tutto specifico. La sua struttura di governante vede un consiglio di am­ministrazione nominato dai Presidenti di Camera e Senato e una potente commissione parlamentare che vigila sul suo operato. La sua struttura dí ricavi è basata per il 50% sul canone, un’imposta raccolta in condizioni di monopolio. La sua azione, infine, espri­me, anche al di là delle intenzioni di chi la gestisce, una valenza politica elevatissima, che in Italia ha pochi eguali.
Il canone pone seri problemi di natura concorrenziale. In teoria, remunera gli impegni attinenti al servizio pubblico. In realtà tolti i limiti (di tempo e di collocazione) posti alla raccolta pubblicitaria, gli impegni codificati nel contratto di servizio sono generici e come tali non difficili da assolvere: qualora fossero posti a gara, non mancherebbero i soggetti disposti ad assumerli per cifre inferiori ai 2500 miliardi che oggi riscuote Rai. Ciò non è privo di conseguenze per gli assetti competitivi dei nuovi mercati. Nel mercato di base in cui Rai compete, vale a dire la televisione generalista finanziata dalla pubblicità, si può assumere che i concorrenti compensino lo svantaggio del canone con i minori vincoli in materia di spot. In altri mercati, come ad esempio quelli che si formano in ambiente Internet, ciò non avviene. I contenuti pregiati (informazione, divulgazione culturale, sport) che Rai intende valorizzare nascono da una struttura produttiva (redazioni, know how, esperienza, diritti) i cui costi d’impianto sono stati pagati in via primaria con gli introiti da canone. Tuttavia, allorché immette tali contenuti nei nuovi mercati, Rai spiazza gli altri produttori che devono finanziare la produzione dei propri solo con introiti realizzati in ambiti competitivi (pubblicità, editoria su carta, Internet). Se Rai offre i suoi contenuti ín modo non discriminatorio tutti i fornitori di servizi, estende anche a un nuovo settore, immune da sovvenzioni di Stato e da obblighi di servizio universali il privilegio che le deriva dal canone. Anche più grave sarebbe la lesione della concorrenza se l’offerta fosse fatta in esclusiva. Se poi l’esclusiva servisse per ottenere partecipazioni in società del nuovo settore, si avrebbe un privilegio acquisito offrendo in cambio un altro privilegio.
A questi rilievi Rai oppone due argomenti. Il primo concerne le attività del passato: il canone ha ormai pagato la produzione e messa in onda dei programmi riconducibili agli impegni di servi­zio pubblico; oggi quindi Rai ne può disporre liberamente. È faci­le obiettare che, se i programmi legati alla sfera di servizio pubbli­co generano ricavi commerciali (pubblicità, Internet ecc.), il ca­none non può eccedere la differenza fra tali ricavi e i costi di produzione (e quindi oggi, in presenza di nuovi ricavi, andrebbe ridotto): in caso contrario non solo si avrebbero indebite sovvenzioni a un soggetto che compete su liberi mercati, ma si dimostrebbe la tesi che gli impegni di servizio pubblico vanno messi a gara fra gli operatori in modo da spuntare il prezzo più efficiente. Il secondo argomento Rai riguarda le attività del futuro e si pernia sulla separazione contabile, la quale dovrebbe garantire che gli effetti del canone restino circoscritti all’area televisiva ge­neralista: in questo modo lo statuto di Rai sui nuovi mercati sarebbe pari a quello dei concorrenti. Per ora la separazione conta­bile esiste solo sulla carta; ma se anche fosse realizzata potrebbeneutralizzare solo sussidi incrociati diretti, non l’efficacia a lungo termine degli investimenti per l’impianto delle strutture che producono notizie o divulgazione culturale.
Com’è inevitabile, nell’attività del principale editore italiano, che genera contenuti da quasi mezzo secolo (almeno ín ambito televisivo), si sono stratificati modelli di business differenziati (canone, raccolta pubblicitaria competitiva, vendita di programmi su mercati diversi, inclusi í nuovi ambienti di comunicazione). Non tutti questi modelli di business sono compatibili con lo sviluppo della net economy: in particolare quello estraneo al mercato, il canone, può creare attriti e ritardi sotto almeno due aspetti. Da un lato rende più difficile l’affermazione di nuovi soggetti perché fallisce l’egemonia dell’editore più forte e quindi toglie spazio a iniziative innovanti. Dall’altro lato occulta e assolve inefficienze entro la struttura Rai e quindi ne penalizza la capacità di innovazione (la rende più costosa). Non va dimenticato che la storia di Rai contrasta con i tratti caratteristici della net economy: la tutela politica cui è soggetta da decenni ne ha plasmato le strutture e i processi decisionali (rallentandoli). Il vecchio vincola il nuovo e ciò in un settore ad accelerata mutazione qual è Internet può rivelarsi esiziale.
La conclusione è probabilmente una sola: occorre scegliere, anche nell’interesse dí Rai, fra i modelli di business, separare le stratificazioni accumulatesi nel tempo. Se si vuole mantenere in vita l’idea di servizio pubblico e la sua proiezione fattuale (il caro canone), allora è solo alla sfera in cui esso è nato e si suppone conservi validità che il soggetto titolare deve limitare la propria azione. Se invece si ritiene che Rai fertilizzi con la propria esperienza e capacità la net economy, allora vanno tagliati i privilegi e i vincoli che legano l’operatore storico della televisione italiana ad altre finalità e ad altri modelli operativi e ne limitano la libertà creativa. La non scelta, tenere insieme in una miscellanea eclettica servizio pubblico e net economy, alla fine ottiene come unico risultato di intralciare lo sviluppo dell’una e moltiplicare i dubbi, già cospicui, sull’utilità dell’altro.

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