Qui ci vuole uno scatto

giugno 29, 1996


Pubblicato In: Varie

Il capoluogo piemontese sembra contemplare, nell’inerzia, i suoi problemi e appare incapace di far leva sulle sue doti

A leggere questa classifica, la prima reazione e’ di incredulita’: meglio vivere a Berna che a Venezia? Torino al 129esimo posto su 142: meglio a Sassari che a Torino? I criteri scelti sembrano parziali, non valutano, per dirne una, le prossimita’: eppure la possibilita’ di muoversi e di collegarsi e’ assai rilevante, pezzi sempre piu’ importanti di vita si svolgono anche fuori dalla citta’ di residenza. Forse e’ sbagliata fin la pretesa di misurare un dato troppo soggettivo come la qualita’ della vita; converrebbe limitarsi invece piu’ pragmaticamente a discutere di servizi e di opportunita’ di lavoro.

Parliamo allora piu’ specificamente delle opportunita’ che Torino offre: i dati sulla disoccupazione, sul basso livello di terziarizzazione dell’economia hanno un peso determinante per questa bassa classifica.

“Torino citta’ laboratorio” recita la vulgata. Torino, sede della massima industria manifatturiera italiana, vive piu’ di ogni altra citta’ le difficolta’ della transizione: come tipo di attivita’ -dall’industria al terziario; come dimensione di azienda – da quella grande e verticalmente integrata alla impresa reticolare; come rapporto di lavoro- da quello iperregolamentato e protetto, a quello mobile, basato su “contratti atipici”. In una citta’ che vede diminuire i suoi abitanti si rendono disponibili spazi; dove non nascono opportunita’ di lavoro noia e disperazione producono una domanda cui risponde l’offerta di droga e prostituzione. A riempire gli uni e a soddisfare l’altra provvedono gli immigrati, in una citta’ che, pur tra contraddizioni e tensioni, aveva saputo metabolizzare con successo la straordinaria ondata migratoria negli anni 60.

La transizione, Torino e’ li’ a dimostrarlo, e’ piu’ facile dall’agricoltura o dalla microimpresa al distretto industriale, che non dall’azienda monolitica alla pluralita’ di medie imprese diffuse. Il Lingotto sembra un simbolo di questa difficolta’: una imponente operazione di riconversione al terziario, condotta con gusto e con larghezza di mezzi e di vedute, l’unico segno di novita’ in Torino da decenni. Ma la dimensione stessa della volumetria a disposizione ne fa una sorta di “buco nero”, che attrae ogni iniziativa, che blocca sul nascere ogni altro progetto.

Tutto cio’ non giustifica pero’ l’inerzia con cui Torino sembra contemplare i suoi problemi, l’incapacita’ che dimostra di far leva sulle sue “doti”. Torino ha una concentrazione di managerialita’, professionalita’, cultura quali poche altre citta’ d’Italia. E’ la sede del primo gruppo finanziario italiano, che, lui si’, ha saputo diversificarsi. E’ il centro del design industriale mondiale. Ha una posizione geografica invidiabile, un’ora dalle Alpi, un’ora e mezza dal mare. Ha l’Accademia delle Scienze e il Museo Egizio, il Politecnico e l’Einaudi, una scuola filosofica ed una vita musicale tra le piu’ ricche, a volte anche vivaci, d’Italia. Ha una topografia tra le piu’ favorevoli, e una deplorevole mancanza di parcheggi. Fabbrica metropolitane per gli altri e non riesce a farla per se’. Lo sfacelo Alitalia produce Air One a Milano, Air Eagle nel Veneto: nulla a Torino, dove pure era nata la prima iniziativa Eurofly. Ha avuto una grande scuola medica, pensiamo alla cardiochirurgia, e alimenta un intenso flusso verso gli ospedali di Lione.
Perche’? Una classe dirigente che risente anch’essa di un “effetto Lingotto”? Colpa della Fiat se Torino, secondo questo studio, e’ peggio di Alessandria? Colpa di un’emarginazione nelle decisioni nazionali, quali l’alta velocita’ e le metropolitane? Le lamentele avranno pur qualche fondamento, ma diventano stucchevoli quando si stenta a ritrovare uno scatto di orgoglio, di fantasia, di volonta’.

Bisognerebbe incominciare a chiedersi: perche’ mai un’industria dovrebbe localizzarsi a Torino? Tutti sono concordi che a cio’ gioverebbe innazitutto semplificare, ridurre gli oneri burocratici: possibile che sia sempre colpa di altri? e se cosi’ fosse, se proprio nulla si potesse fare da soli, perche’ non essere almeno i piu’ innovativi nella protesta, i piu’ documentati ed i piu’ determinati? Perche’ non essere i primi nelle privatizzazioni delle aziende municipalizzate e cosi’ stimolare l’iniziativa privata in una citta’ che dice di soffrire proprio di mancanza di iniziative?

La classifica, si e’ detto, presta il fianco a troppi dubbi metodologici. Ma c’e’ da sperare che non su questi si appunti una fin troppo facile critica. Perche’, sia detto senza offesa, solo 6 posti separano Torino da Cosenza e 10 da Catania. Nutriamo ancora ambizioni di piu’ alta classifica.

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