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Quella vecchia idea di privatizzare la Rai

Pubblicato il 06/08/2016 @ 12:37 in Il Sole 24 Ore


A trovarlo scritto (sul Foglio dello scorso 28 Luglio) c’è da non crederci: sarebbero tutti d’accordo a privatizzare la Rai.

Renzi dall’epoca della Leopolda, Massimo Mucchetti da quando faceva il giornalista all’«Espresso», adesso anche D’Alema; al M5S la pubblicazione degli stipendi dei giornalisti ha fatto ricordare quel che prevedeva il programma, un solo canale pubblico finanziato col canone.

Chi ricorda le interminabili discussioni degli anni dell’Ulivo – per garantire il pluralismo ci vuole lo Stato o fa meglio la concorrenza? vendere il 100% di una parte o una parte del 100%? e c’è pure una mia proposta di legge del 2001 – prende sul serio la buona intenzione: Rai Uno pubblica, il resto sul mercato. Ma, memore delle esperienze, va a scovare il diavolo nei dettagli in cui ama nascondersi.

Partiamo da un’ipotesi, rozza ma semplice: dividere tutto per due. Per Rai Uno metà del totale i costi di funzionamento, cioè 1.150 milioni; metà del canone, cioè 850 milioni; metà dei dipendenti, 6.500 (degli attuali 13.000) accolti a bordo della rete ammiraglia. Quanto ai ricavi pubblicitari, la legge prevede un tetto all’affollamento, 12% per le reti che fruiscono del canone, 18% per le altre. Quindi a Rai Uno, con l’attuale limite del 12%, metà del ricavo, cioè 300 milioni.

Alle Rai privatizzande viene a mancare la “loro” metà del canone (mantenerlo anche solo in parte sarebbe una beffa in Italia, un aiuto di Stato in Europa): 850 milioni in meno. Però grazie al tetto di affollamento che passa dal 12% al 18%, aumenta del 50% il loro potenziale di offerta: a prezzi costanti sarebbero 150 milioni in più. Son sempre 700 quelli che mancano all’equilibrio, e devono venire dalla riduzione dei costi.

Tante polemiche e chiacchiere sui livelli degli stipendi Rai, ma il problema è il numero degli stipendiati: 13.000 in Rai, 4.000 in Mediaset. Le Rai privatizzande devono darsi strutture analoghe ai quelle dei loro concorrenti: 6.500 dipendenti sarebbero ancora un’enormità, qui la regola del due dovrà essere applicata due volte, 3.250 dipendenti dovranno trovare un’altra collocazione.

E non basterà: perché è ovvio che 150 milioni in più di pubblicità offerta sul mercato provocheranno una caduta dei prezzi in tutto il mercato pubblicitario, i 1.200 che vanno alle televisioni private, i 600 che vanno a giornali e periodici. Tutti i fornitori di pubblicità vedranno crollare i loro margini (essendo consigliere di Cir che controlla il Gruppo Espresso, so bene quanto siano diminuiti i ricavi da pubblicità e da diffusione nella carta stampata). Quei 150 milioni teoricamente consentiti dal nuovo tetto produrranno in realtà un modesto aumento dei ricavi e un modestissimo aumento dei margini.

La soluzione è ridurre l’offerta: Rai Uno non trasmetta più pubblicità. L’avevo già proposto (il 16 Marzo scorso su queste colonne) come contropartita dell’aumento del gettito dovuto alla ridotta evasione con il canone in bolletta. Adesso con la privatizzazione si aggiunge una ragione di equilibrio di tutto il sistema dell’informazione. (E già l’attribuire metà del canone alla sola Rai Uno può stare in questo rozzo schemino, ma è chiaramente un’esagerazione).

Vendere certo, ma chi compera? Già lo si sapeva ai tempi dell’Ulivo, che a comperare (pezzi di) Rai non ci sarebbe stata la coda. Il tempo sprecato ha reso le cose più difficili: oggi che la comunicazione politica si fa a colpi di 140 caratteri, e che un selfie riesce a sventare un colpo di Stato, il valore politico del possesso di una televisione si è molto ridimensionato.

Sia allora consentito chiudere questo amarcord ricordando il titolo del primo articolo che scrissi su questo giornale quasi un quarto di secolo fa, all’inizio del processo di privatizzazione: «Vendiamo i bonsai di Stato». Nei grandi aggregati pubblici, suggerivo, si individuino le idee brillanti, i business che creano valore, i gruppi di professionisti che saprebbero (e vorrebbero) affrontare il mare aperto della concorrenza, e li si metta sul mercato. Perché l’economia cresca, bisogna lasciar crescere le attività più produttive. E le altre? Individuarle e isolarle è già un utile primo passo.

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dalla Redazione – Il Foglio, 28 luglio 2016

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