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Quattro tappe per liquidare l’IRI

Pubblicato il 02/02/1996 @ 12:52 in Giornali,Il Sole 24 Ore


Il proposito di vendere subito e separatamente le quote di partecipazione dell’Iri nelle società quotate facenti capo al gruppo Stet si è fatta dunque strada nei vertici dell’Iri. Chi questa tesi sosteneva fin dal 1992 non si rallegra che a ciò si sia giunti sotto la pressione dei debiti anziché per ragioni a suo tempo avanzate: ampliare il sistema industriale italiano, rafforzare la Borsa, dare trasparenza nei rapporti di fornitura infragruppo, aumentare la concorrenza.

L’esperienza ci ha reso cauti e consiglierebbe di limitarsi a registrare questa apertura e i primi positivi commenti. Ma non si può perdere l’occasione per tracciare un percorso completo che, partendo dallo spunto indicato dal presidente dell’Iri, Michele Tedeschi, non solo scongiuri i rischi che l’operazione potrebbe nascondere, se non fosse correttamente eseguita, ma valga a risolvere alla radice i problemi strutturali che rallentano il processo di privatizzazione.
La ratio è stata spiegata, con straordinario tempismo prima che da Michele Tedeschi, da Alessandro Penati sul Sole di domenica: Stet capitalizza 22.800 miliardi, la sua partecipazione in società quotate (Tim, Sirti, Telecom) vale 27 mila miliardi, le altre proprietà (Pagine Gialle, Finsiel, quota di Italtel-Siemens, immobili, cassa e partecipazioni minori) circa 6 mila miliardi. La differenza tra valore di Stet e valore delle sue attività è dunque di 10 mila miliardi che Iri potrebbe incassare se eliminasse la ‘scatola’ Stet.
Un discorso analogo si può fare per Finmeccanica: la capitalizzazione di Borsa e di 1.265 miliardi e il valore delle sole aziende quotate, non comprese quindi quelle della difesa, è di 1.049 miliardi. Si noti che questi sono i valori di Borsa di aziende che il mercato ritiene non scalabili per definizione, e che quindi la cessione di pacchetti che consentano il controllo farebbe emergere con ogni probabilità valori assai più consistenti.
La causa impellente di ogni decisione che l’Iri dovrà a giorni assumere è la riduzione del debito: questo obiettivo deve quindi essere perseguito con feroce coerenza, da esso e solo da esso devono derivare indicazioni sulle modalità delle dismissioni. Il debito dell’Iri è garantito dal Tesoro, e il suo ammontare è stato definito in sede comunitaria con l’accordo Andreatta-Van Miert: a nessuno dovrebbe venire in mente di ridiscuterlo offrendo qualche manifestazione di buona volontà. L’importo delle dismissioni deve dunque affluire direttamente all’Iri, non transitare neppure attraverso le finanziarie di settore Stet e Finmeccanica, essere immediatamente imputato a ridurre l’esposizione dell’istituto, e non usato per nessun altro scopo.
Per questo obiettivo si propone un processo a quattro tappe. La prima consiste nel distribuire agli azionisti Stet e Finmeccanica pro quota le azioni delle società quotate e non quotate controllate da Stet e Finmeccanica, escluse quelle della difesa. (Lo stesso risultato si può raggiungere mediante scissione e successiva fusione). L’Iri, in quanto azionista di Stet al 64 per cento e di Finmeccanica al 63, resterebbe proprietaria del 40 per cento di Tim, del 34 di Sirti, del 40 di Telecom, del 33 di Elsag Bailey, e del 33 per cento di Ansaldo Trasporti (percentuali non sostanzialmente alterate dalla presenza di azioni di risparmio). Le plusvalenze derivanti dal maggior valore che in tal modo vengono fatte emergere contribuirebbero a migliorare il bilancio Iri, mentre i proventi finanziari affluirebbero dalla vendita mediante Opv delle azioni così venute in suo possesso: è questo l’oggetto della seconda tappa. Vendita che risulterebbe grandemente facilitata: perché si tratta di aziende ben focalizzate su singoli business, perché gli importi richiesti al mercato risultano frazionati su più valori, perché si evita di attribuire valenza strategica anche alla cessione di aziende che di strategico non hanno proprio nulla. Le quote in mano Iri consentono ancora il controllo di fatto: ma anche le difficoltà politiche insite in questa seconda fase di dismissioni sarebbero ridotte: è evidente che la cessione di Telecom, o di aziende legate alla difesa, presenta aspetti di delicatezza assenti nella cessione di Sirti o Elsag.
Un problema potrebbe sorgere a proposito di Telecom: la legge 474 sulle privatizzazioni impone che, per le aziende operanti nei settori della difesa e delle telecomunicazioni «prima di ogni atto che determini la perdita di controllo» si provveda a introdurre negli statuti la clausola della golden share (cosa che dipende solo dall’Iri) e la costituzione della Autorità di settore (cosa che espone il progetto alle insidie dei molti amici che le tecnostrutture annoverano in parlamento, a destra come a sinistra e soprattutto al centro ex democristiano). La cosa non riguarda invece Tim, dato che nessuno oserà sostenere che si tratta di un servizio ‘di rilevante interesse pubblico’ e dato che un concorrente privato già esiste. Per Telecom sarebbe necessario, a esempio, trovare il modo di congelare, fino alla costituzione delle Autorità, il diritto di voto per le azioni cedute al pubblico.
Sarebbero così automaticamente quotate anche le società di Stet che attualmente non lo sono: le ricchissime Pagine Gialle, Finsiel, la quota in Italtel-Siemens. In Stet resterebbero solo immobili, cassa e partecipazioni minori; in Finmeccanica le aziende del settore difesa. Non essendoci più materia per una gestione strategica delle attività da parte delle sub-holding, verrebbe a mancare la loro stessa ragione di esistere.
Nella terza tappa quanto resta di Stet verrebbe acquistato da Iri mentre Finmeccanica resterebbe come capogruppo di un settore difesa, in attesa di una sua sistemazione nel processo di razionalizzazione che, prima o dopo, dovrà aver luogo in Europa.
Si viene così alla quarta tappa: portare il processo alla sua logica conclusione, la liquidazione dell’Iri, passando le sue residue partecipazioni la Tesoro, secondo la proposta avanzata nelle scorse settimane dal professor Francesco Giavazzi, così da troncare sul nascere ogni fantasia di dare al venerando Istituto una nuova vita, trovandogli nuove missioni, presunti ruoli strategici, facendone un carrozzone per interventi nella realizzazione di chissà quali infrastrutture.
È vero, finché tutte le partecipazioni non saranno state vendute, e forse anche dopo, resterà un indebitamento dell’Iri che apparirà così anche contabilmente a carico del Tesoro. Ma Maastricht comporta anche valutazioni qualitative sull’economia dei vari Paesi, e non c’è dubbio che concludere con rapidità e decisione una simile operazione di semplificazione e di chiaro indirizzo verso il mercato e la concorrenza, sarebbe adeguatamente apprezzato. Non resta che augurarsi che il futuro ministro del Tesoro, chiunque esso sia, sappia assumersi questo compito: anche questa sarebbe una svolta per capire se siamo davvero entrati nella seconda Repubblica.

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