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Quattro domande su Fastweb

Pubblicato il 28/03/2010 @ 17:00 in Giornali,Il Sole 24 Ore

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Perché Scaglia è ancora in carcere? Perché le due società dovevano sapere? Perché le autorità non hanno indagato? Che cosa ci si aspetta dal commissario?

Sui casi Fastweb e Telecom Italia Sparkle, si addensano gli interrogativi. Questi, più passa il tempo senza che vi sia risposta, più diventano inquietanti. Il meccanismo truffaldino del carosello è chiaro: con la compravendita all’ingrosso di traffico telefonico, a cui non corrispondeva nessun traffico reale, gli importi di IVA corrispondenti si accumulavano in capo a una società di comodo che al momento buono chiudeva o spariva.

Questa società lucrava i proventi della truffa, mentre Fastweb e TI Sparkle guadagnavano una piccola provvigione sul traffico in transito, ma versavano allo Stato tutta l’IVA andando in credito di imposta.
Prima domanda: che cosa fa pensare che le due società, anello indispensabile del carosello, fossero a conoscenza che in un certo punto dello schema, c’era anche un anello truffaldino? L’interesse per le aziende e per i manager c’era: portare a conto economico la percentuale sul valore del traffico, e mostrare a clienti e investitori una forte crescita del fatturato: anche se non corrispondeva alla reale penetrazione sul mercato.

Seconda domanda: sembra che il carosello abbia incominciato a funzionare nel 2002 e sia andato avanti a girare fino al 2006. La cosa era nota, ovviamente all’interno delle aziende di cui si parla e pare non solo in quelle: si tratterà di vedere fino a che livello della linea gestionale e della linea di controllo. Ma non poteva non essere nota anche alle autorità: se fosse stato così evidente che nello schema c’era un anello truffaldino, non solo, ma che il suo “beneficiario ultimo” era la mafia, perché questi terminali non stati individuati prima da polizia e magistratura? Eppure dispongono di strumenti di indagine ben maggiori di quelli delle aziende, che essi anzi hanno il compito di proteggere.

Terza domanda. Perché il CEO di Fastweb all’epoca dei fatti, Silvio Scaglia, è in prigione ormai dal 26 febbraio e gli sono stati negati gli arresti domiciliari? Perché su Fastweb e Telecom Italia Sparkle incombe il rischio di commissariamento? Fattispecie diverse, domanda unica. Perché il manager è ristretto nella sua libertà di movimento, le aziende sono sotto minaccia di essere “ristrette” della loro libertà di impresa. Che cosa temono le autorità che possa succedere? Scaglia era all’estero e si è immediatamente costituito: si teme che possa aver cambiato idea dopo avere gustato le patrie galere? Si pensa che le aziende possano delocalizzarsi? Reiterare il reato? Ma riprendere pratiche che sono state volontariamente abbandonate diversi anni prima che scoppiasse il caso, sembra materialmente impossibile a tutti, per non parlare a chi, come Scaglia, ha nel frattempo cambiato mestiere. Manipolare le prove? Ma ormai non ci sono più cassetti da perquisire, le prove ci sono tutte, il procedimento è di quelli che si chiamano documentali.

Quarta domanda. Che cosa ci si aspetta dal commissario? In entrambi i gruppi sono cambiati non solo i vertici aziendali, ma addirittura le proprietà. Che cosa fa pensare che proprietà e management nuovi siano collusi con i precedenti, e li coprano, tanto da rendere necessaria una epurazione radicale? Si vuole dare una dimostrazione che i denti della 231 mordono davvero? Ma non può finire per dimostrare il contrario, e cioè i profondi ripensamenti di cui necessita la 231?

Altri hanno prospettato la gravità delle conseguenze di un commissariamento: danni alle aziende, ai loro dipendenti, azionisti, fornitori; danni ai clienti per la distorsione del mercato concorrenziale, trattandosi di imprese che competono tra di loro; danni di immagine ad un Paese che ha un sistema giudiziario dai comportamenti così difficili da comprendere. Ma un giudice può avere altre priorità, la maestà della legge può passare davanti a considerazioni di interessi, anche di interessi generali. Antica questione il fiat iustitia, pereat mundus.

Però sta il fatto che la legge vive, e la maestà della legge diventa potere della legge, quando è compresa e condivisa, non solo dalla minoranza di populisti mozzaorecchi, ma dalla generalità dei cittadini che cercano di ragionare e vorrebbero capire. E questo interessa tutti: i cittadini, ma anche i giudici.

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