Protettori politici e cattive intenzioni

luglio 28, 1998


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


Si avvicina il momento cruciale del passaggio in commissione al Senato del disegno di legge delega sul riordino delle Fondazioni bancarie. Il dibattito sulla vendita delle banche è scivolato in secondo piano: le Fondazioni che vogliono vendere lo stanno facendo sotto la spinta delle forze di mercato, gli incentivi fiscali appaiono sempre più un abbellimento superfluo. La vera questione che resta aperta riguarda il patrimonio, la possibilità che le Fondazioni lo usino per partecipare al controllo di società quotate.

Il Ddl non lo vieta, emendamenti volti a impedirlo presentati alla Camera sono stati lasciati cadere, al Senato analogo sembra l’atteggiamento del sottosegretario al Tesoro, Roberto Pinza. Si è dunque indotti a pensare che non solo non si voglia impedire, ma che, al contrario, si desideri che le Fondazioni possano entrare nel controllo di società quotate. Si tratterebbe di una novità potenzialmente rivoluzionaria: è quindi doveroso chiedersi se Governo e maggioranza abbiano considerato le implicazioni di questa scelta. Siamo sicuri che in essa non prevalgano reminiscenze di ciò che la leva creditizia ha consentito al potere politico di altri tempi?
Il dubbio è legittimo, se analizziamo le varie categorie di società in cui le Fondazioni potrebbero entrare. Non certo società bancarie, quelle di cui questa legge vorrebbe incoraggiare la dismissione. Non le società private: riducendo i vincoli dei sindacati di voto, abbassando i limiti a cui scatta l’Offerta pubblica di acquisto, la legge Draghi ha aumentato la contendibilità della proprietà. Quando ne è ancora fresco l’inchiostro, preoccuparsi che nuovi soggetti possano venire in soccorso ai gruppi privati che cercano capitali per lo sviluppo delle proprie imprese, ma vorrebbero non perderne il controllo, sarebbe abbastanza clamoroso.
Restano, per esclusione, le imprese pubbliche ancora da privatizzare: le Fondazioni bancarie dovrebbero cioè entrare nei nuclei stabili. Ma anche questa ipotesi confligge con le soluzioni annunciate o prevedibili. Infatti: per Autostrade, Alitalia, Finmeccanica si cercano partner industriali; per l’Eni, quando mai verrà l’end game, e per l’Enel, quando mai si aprirà la partita, sembra difficile riuscire a formare un nucleo sufficientemente grande da essere stabile. E poi l’esperienza di Telecom dovrebbe avere reso avvertito il Tesoro dei rischi connaturati allo schema misto public company-nucleo stabile. Rimane Bnl: un po’ poco per giustificare questa rivoluzione.
Non resta che un’unica conclusione: ciò che, senza dirlo esplicitamente, in realtà si vuole è che le Fondazioni siano non solo una temporanea stampella in operazioni difficili, come è stato per Telecom; che servano non solo per immettere liquidità in un mercato supposto incapace di assorbire grosse offerte: Ciò che si vorrebbe è che le Fondazioni entrassero come nuovi soggetti stabilmente e permanentemente operanti bel mercato per il controllo delle imprese italiane: le Fondazioni fatte diventare investitori istituzionali a tutti gli effetti.
Sarebbe un’innovazione fortemente negativa per più ragioni. Ordinamentali e di trasparenza innanzitutto: è la loro stessa associazione a indicare che, per le Fondazioni a struttura istituzionale il 63% dei membri dei consigli sono di nomina pubblica e il 12% cooptati, e per quelle con struttura associativa il 12% sono di nomina pubblica e il 69% cooptati. (si veda il «Terzo Rapporto» Accri, alle pagg. 40 e 41).
Sarebbe un’innovazione negativa per ragioni economiche: le Fondazioni non rispondono a un avente diritto, non esiste chi pretende la massima efficienza nel rapporto rischio-rendimento, valuta i risultati e può sanzionare i vertici. Operatori no profit come le Fondazioni spiazzerebbero operatori soggetti al vincolo di massimizzare il profitto e quindi produrrebbero un effetto negativo sul livello di efficienza dell’intero sistema.
Sarebbe un’innovazione negativa per ragioni morali: perché mai le Fondazioni, che del loro patrimonio sono custodi ma non proprietari, dovrebbero rifiutare le regole e i vincoli che vengono imposti ai veri investitori istituzionali, quali i fondi pensione?
Anche la Consob ha richiamato l’attenzione su tali argomenti, condivisi ormai da voci diverse levatesi dalla politica, dall’accademia e dal mercato. Basterà ricordare, tra gli ultimi in ordine di tempo, gli interventi di Messori e Agostini sul Sole 24 Ore, di Giavazzi sul Corriere della Sera. La soluzione è lineare: le Fondazioni devono investire i proventi delle dismissioni bancarie attraverso il velo di investitori professionali. Invece, in Parlamento, la discussione si è svolta tutta su aspetti periferici dell’autonomia delle Fondazioni, il Centro-destra difendendone la libertà operativa contro ingerenze centralistiche, il Centro-sinistra cercando di mantenere simulacri di controllo sui livelli minimi (sic!) di redditività ed erogazioni. In realtà, entrambi hanno cooperato per mantenere impregiudicata la questione di come proteggere e investire il patrimonio.
Può ben essere che nel Centro-destra o nel Centro-sinistra ci siano forze che pensano di avere, un domani, verso soggetti dall’identità incerta ma stabile, usi a muoversi lungo le linee di forza invisibili ma note, soggetti in prospettiva finanziariamente liquidi, il potere di orientali a finanziare questa o quella operazione. Né vale la giustificazione — invero ben strana se fosse fatta dal Governo — di voler così supplire alla mancanza di investitori istituzionali quali i fondi pensione. Il nostro sistema finanziario non ha bisogno di controfigure, ma di attori veri. I soggetti impropri non cambiano di natura per il fatto di esercitare funzioni di supplenza, ma ostacolano l’affermarsi dei soggetti propri di cui occupano il posto. Per bene che vada.

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