Privatizziamola, e perderà i suoi vizi antichi

aprile 6, 2005


Pubblicato In: Varie


Intervista a CaffèEuropa

“Esiste un vecchio proverbio ebreo: quello che non costa niente, non vale niente. Perché non dovrebbe andar bene per i programmi televisivi?”.
“Chi l’ha detto che un programma tv deve essere pagato da tutti, anche da chi non lo vede o non gli piace?”.
“Perché mai il servizio pubblico deve necessariamente essere erogato dallo Stato e non da un privato?”.

Chiedo un’intervista al senatore dei Ds Franco Debenedetti e invece, quando ci incontriamo, chi fa le domande è lui. Domande che hanno la risposta già scritta e che il senatore usa per spiegare perché sia assolutamente necessario, secondo lui, che la Rai sia privatizzata, tutta, senza eccezioni.
La tv di qualità, le proposte politiche di Prodi per quando il centro sinistra sarà al governo, le leggi del mercato e la concorrenza. Il discorso tra tv servizio pubblico e privatizzazione si intreccia a tanti e complessi argomenti che il senatore passa in rassegna. A partire dal testo della Legge Gasparri.

“È la bestia nera della sinistra, per ragioni che secondo me non sono tutte giustificate. Il suo difetto maggiore, ma decisivo, è nella visione di sistema del settore televisivo”, dice Debenedetti. “La Gasparri vuole vendere progressivamente parti della Rai tutta intera, ma non solo non pone alcun obbiettivo alla perdita di controllo dello stato sull’azienda, ma mette in moto un meccanismo che allontana indefinitamente questo momento. Questa è la volontà politica che appare chiaramente, a fronte della quale la facoltà, che pure ha il CdA, di vendere rami d’azienda, dunque anche intere reti, appare una possibilità del tutto teorica. L’idea sottesa alla legge è di lasciare i privati in minoranza in un consiglio d’amministrazione espressione del Governo e di organi parlamentari come la Commissione di Vigilanza. E siccome non si ha perdita di controllo, chiamare questa una privatizzazione è un falso”.

Da una parte la proposta del governo incarnata dalla legge Gasparri, dall’altra la soluzione proposta da Romano Prodi.

Il proposito manifestato da Prodi nella lettera al Corriere di fine anno è la Rai divisa in due. Da una parte il servizio pubblico finanziato dal canone, dall’altra la tv commerciale finanziata dalla pubblicità da vendere a privati. Prodi dice “dovrebbe”: ma non vedo perché un Presidente del Consiglio non faccia ciò che “dovrebbe” essere fatto.

Ma se la privatizzazione della Rai dipendesse da lei quale soluzione adotterebbe?

Il fatto che io abbia delle riserve sul proposito di Prodi non mi impedisce di giudicarlo un notevolissimo passo avanti. Quando avremo vinto le elezioni e Prodi avrà messo in atto ciò che ha detto che si “dovrebbe” fare, avremo messo in atto le condizioni per il superamento del duopolio che blocca il sistema televisivo italiano da anni. Riconosco che in Europa la pressione per mantenere un’emittente televisiva pubblica è fortissima, e difficilmente superabile, anche si tratta di un pregiudizio datato, che non ha più ragione d’essere.

Concetto vecchio e senza più motivi di esistere, è del servizio pubblico che sta parlando?

Sì. Chi sostiene la tv di stato deve rispondere a due domande.
Primo: chi comanda? Ossia, a chi risponde politicamente una televisione pubblica?
Secondo: che cosa vuol dire servizio pubblico, e per quale ragione non può essere svolto da privati?
Due quesiti a cui non si riesce a rispondere. Probabilmente in assoluto, certo non nell’Italia di oggi e del prevedibile futuro.

Non si possono allontanare il potere politico e il controllo amministrativo della Rai?

La ragione per cui si vuole e si chiede una tv pubblica è proprio perché essa sia accountable, che risponda cioè non a interessi privati, ma a un interesse pubblico. Ora chi legittimamente può sostenere di rappresentare l’interesse pubblico se non una catena di comando che, pur attraverso vari gradi di indirettezza, finisca per far capo a un potere politico democraticamente eletto? Non fosse altro che perché quelli del canone sono soldi dei contribuenti, analogamente alle tasse, non è concepibile in democrazia che il potere pubblico non controlli come vengono spesi. Democrazia è anche trasparenza e responsabilità nella amministrazione dei soldi dei cittadini.

Eppure ci sono esempi di servizio pubblico televisivo di successo che non è affatto gestito direttamente dal potere politico. La Bbc su tutti: non ha pubblicità all’interno della programmazione, si finanzia con il solo canone, produce programmi di indiscussa qualità a livello mondiale.

Anche quelli televisivi sono dei prodotti, e come tutti i prodotti hanno una loro immagine di marca che ne costituisce l’avviamento, la base del rapporto con il pubblico.
Negli anni passati, quando deteneva il monopolio della programmazione televisiva britannica, la Bbc si è costruita un’immagine di indipendenza, autorevolezza e qualità; ora deve restare fedele a queste sue caratteristiche, pena la perdita dei suoi ascoltatori. In questo senso si potrebbe dire che il vero “padrone ” della Bbc é il suo passato. Qual è il passato della Rai? È un passato di lottizzazione teorizzata, dichiarata, voluta, realizzata a tutti i livelli, dai direttori di rete fino agli autisti. Non si può prescindere dalla propria storia, il passato condiziona il futuro. Se anche la Bbc, come si è visto in occasione della vicenda della morte dello scienziato che indagava sulle armi in Irak, ha difficoltà a mantenere la sua identità, è assurdo pensare che la Rai diventi una Bbc. Bisognerebbe annullarne il passato, cancellarne la storia e, come mi è già capitato di dire con una boutade, raderla al suolo, spargere sale e ricostruirla da capo.

E veniamo alla seconda domanda che lei stesso ha posto: che significa servizio pubblico? Deve essere necessariamente svolto da un soggetto pubblico?

Io sfido i sostenitori della proprietà pubblica a scrivere, nero su bianco, in che cosa consiste il servizio pubblico, di quali contenuti debba essere fatto. Si vedrà che non c’è nessuna ragione per cui debba essere erogato dallo stato. Se lo si può scrivere, può essere oggetto di un contratto, vincolante riguardo alla concessione delle frequenze.
Chi vuole un servizio pubblico finanziato esclusivamente (o prevalentemente) dal canone sostiene che solo liberandola dalla pubblicità, dunque dall’inseguimento dell’audience, la tv può essere di qualità. In altre parole che il modo con cui la tv è finanziata influisce sul tipo di prodotto.
Ma proviamo ora a girare la questione: possiamo dire che una tv finanziata solo dal canone non deve preoccuparsi di quanti spettatori la seguono? Dato che si spendono soldi di tutti, non è forse doveroso verificare che essi non vengano impiegati a produrre programmi che interessano solo pochi? Non sarebbe regressiva una tassa che è pagata da tutti ma impiegata per prodotti e servizi che interessano prevalentemente quella parte di popolazione che per cultura o censo può procurarsi da sé l’accesso ai contenuti che ritiene interessanti?
La tecnologia digitale consentirà una vera moltiplicazione dell’offerta tv con la nascita e la diffusione di canali tematici a pagamento. Se mi interessa la lirica, sarò certo disposto a pagare una cifra ragionevole per vedere in tv la rappresentazione di un’opera, oppure a cedere una piccola parte di attenzione a una sponsorizzazione. Ci sono perfino nel programma di sala della Scala.

Però si potrebbe obiettare che spettano al servizio pubblico non solo programmi di qualità, seguiti da un pubblico di nicchia, ma anche contenuti che vanno garantiti al di fuori di regole di mercato. Un esempio su tutti potrebbero essere le dirette parlamentari.

Premesso che le dirette parlamentari sono già oggi visibili su internet, non é certo questa una ragione perché sia fornito da un’azienda pubblica, e neppure che richieda il pagamento di un canone: basterebbe imporre alle tv concessionarie di frequenze nazionali di trasmettere contenuti stabiliti, con modalità stabilite. Riusciamo a farlo per l’energia elettrica, per i trasporti, per la sanità, per quale motivo non per la tv?
Rimane poi il fatto che il telespettatore è poi lui padrone del telecomando, decide lui che cosa vuol vedere. E se gli interessa, è disposto a pagare qualcosa: o soldi, o un po’ del suo tempo o della sua attenzione. Il mondo in cui viviamo non è diviso in due parti distinte, un iperuranio di idee nobili che si contrappone al mercato dello scambio di beni.

Non ci sono quindi ambiti che possono essere esclusi dalla pubblicità?

Esistono beni che sono pubblici, pagati dalla fiscalità generale perché non possono essere coperti dal mercato e dal quale nessuno si può escludere. La difesa nazionale, ad esempio, è un servizio che va a beneficio di tutta la cittadinanza e nessuno può dire che non la vuole o che non ne usufruisce.
Un programma televisivo che vogliamo definire “di qualità”, ha queste caratteristiche? È un bene che io desidero e che posso individualmente comperare pagandolo con denaro oppure spendendo il mio tempo. C’è qualche ragione economica o morale per cui questo programma debba essere considerato un bene pubblico e per cui debba essere pagato anche da chi non lo fruisce? Esiste un vecchio proverbio: quello che non costa niente, non vale niente”.

Ma non abbiamo ancora detto che cosa è un “programma di qualità”.

Chi stabilisce i criteri per identificare la qualità e per verificarla? Chi la giudica? Non è certo né il Ministero della Cultura né la Commissione Parlamentare di Vigilanza. Come per tutti i prodotti, dalle automobili alle magliette, dalle case agli spettacoli, è il giudizio del pubblico. C’è spazio per soddisfare tante forme di gusto: di buon gusto e di cattivo gusto. Perché la tv dovrebbe essere diversa?
L’assunto secondo il quale tutto ciò che è “pubblico” ha una qualità diversa da quanto è “privato” e i programmi finanziati dal canone abbiano di per sé una qualità migliore da quelli che si finanziano con la pubblicità è un’assurdità, non sostenibile dalla teoria e contraddetta dalla esperienza.

Privatizzazione della Rai, canone e servizio pubblico. In che modo questi fattori intervengono nel mercato televisivo italiano?

Chi si oppone alla privatizzazione della Rai per il timore di lasciare il mercato in balia dello strapotere di Mediaset cade in contraddizione: è proprio la Rai pubblica a rendere possibile il successo di Mediaset. La Rai ha il canone, e quindi la legge pone limiti di affollamento più stretti di Mediaset. La possibilità della Rai di fare concorrenza a Mediaset nella raccolta pubblicitaria é limitata dalla legge. Per eliminare questo squilibrio è necessario eliminare il canone: così la Rai potrà competere ad armi pari con Mediaset sul mercato pubblicitario e realizzare un vero regime di concorrenza. Non l’oligopolio collusivo di oggi.

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