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Privatizzazioni: una nessuna, centomila

Pubblicato il 31/01/2008 @ 10:41 in Varie


Quando si parla di privatizzazioni realizzate ci si riferisce di solito a quelle delle grandi imprese di Stato, Enel, Eni, Telecom, Autostrade, o per esaltarle o per demonizzarle. Quando si parla delle privatizzazioni non (ancora) realizzate, ci si riferisce alle vendite bloccate a vario titolo. Presunte ragioni strategiche, come per le quote detenute ancora dal Tesoro in Enel ed Eni. Veti sindacali, come per Alitalia e Fincantieri. Egoismi localistici, come per le mini IRI municipali. Problemi politici, come per Rai. Obbiettive difficoltà, come per Poste e Ferrovie.

Mai che si parli di banche: come se questo problema fosse già stato interamente risolto e il problema delle privatizzazioni non riguardasse più il sistema bancario, fatto salvo il problema Bancoposte. Così è di certo dal punto di vista formale. Ma se diamo alla parola privatizzazione il significato di eliminazione dell’influenza politica sulla governance, di instaurazione di un sistema aperto e concorrenziale, nel mondo in quello delle attività economiche ma non solo, attraverso il modo con cui viene selezionato il merito di credito, cioè il meccanismo cruciale nel determinare direzione e velocità di sviluppo del Paese. Non ci si può accontentare di un giudizio formale, ma si deve andare alla sostanza delle cose: e questa è che al vertice del nostro sistema finanziario si è formato, per effetto di interessi interconnessi, un blocco compatto anche se disomogeneo. In fondo, non così dissimile da un’IRI senza Ministero delle Partecipazioni statali.

Ripercorriamo le tappe del processo che ha portato a questa situazione. Tutto ha inizio con l’ultimo Governo Andreotti: Giuliano Amato, Ministro del Tesoro, separa le Fondazioni bancarie dalle “loro” banche, dando a queste ultime lo status di società di capitali, consentendo alle prime di continuare ad esercitare il ruolo di azionisti di controllo. Iniziava così una battaglia durata oltre 15 anni che aveva per posta il controllo proprietario delle Fondazioni sulle banche. Alle Fondazioni è stato riconosciuto di essere soggetti di diritto privato, i cui vertici, secondo i propri statuti, sono nominati quali per cooptazione, quali da parte di soggetti o pubblici o nominati dal pubblico. E’ stata sostanzialmente persa la battaglia per vincolare le Fondazioni alla gestione finanziaria del proprio ingente patrimonio, usandone il reddito per opere di pubblica utilità a vantaggio in primo luogo delle popolazioni dei loro insediamenti di origine, escludendo che il patrimonio potesse essere impiegato per contribuire al controllo di banche o di società con fini di lucro. Anche se l’entità delle partecipazioni delle Fondazioni nelle “loro” banche è percentualmente molto diminuita in seguito al processo di concentrazione nel settore, le Fondazioni contribuiscono alla stabilità dell’assetto proprietario dei tre grandi gruppi bancari, Unicredito, Intesa SanPaolo, Montepaschi di Siena, e, grazie alla partecipazione delle prime due nella Cassa Depositi e Prestiti, dei gruppi industriali Enel ed ENI. (Per memoria ormai, ricordiamo che era stato anche proposto un progetto alternativo a quello della separazione Fondazione-banche: una deroga temporanea al codice civile avrebbe consentito alle banche di trasformarsi in società per azioni che avrebbero detenuto la totalità delle azioni proprie, con l’obbligo di venderle entro un periodo dato di tempo, così ricapitalizzandosi. Ma non si ebbe il coraggio di portarlo avanti).

La privatizzazione delle banche di proprietà pubblica è dovuta a Romano Prodi, da Ministro dell’Industria: IMI, che fu acquistata dal San Paolo, le tre banche di interesse nazionale, poi BNL e INA. Credito Italiano prima trovò un ancoraggio in Fondazioni delle Casse di Risparmio, Comit venne ben presto acquistata da Mediobanca. Fu Antonio Fazio a bloccare la fase del consolidamento, vietando le due OPA ostili, di San Paolo su Banca di Roma, e di Credito su Comit. Finì che Credito, diventata Unicredito, si volse all’estero per la propria espansione, grazie anche alle Fondazioni,che accettarono di diluirsi per sostenere quell’ambizioso progetto; Intesa si fuse amichevolmente con Comit. Il San Paolo non era riuscito a fare una seconda Mediobanca della sua IMI, che pure era dimensionalmente di poco inferiore all’istituto guidato da Cuccia, ed in più aveva il vantaggio di possedere una buona base operativa a Londra. SanPaolo aveva una consistente partecipazione in BNL, ma non riuscì ad attrarla nella propria orbita; non riuscì a battere Generali nell’acquisto di INA. Non andò meglio con Dexia per motivi campanilistici di localizzazione della sede centrale. Iniziò così a perdere di importanza rispetto a Unicredito e Intesa, più dinamiche industrialmente e politicamente: e finì nell’orbita di Intesa.

Alla fine di questo lungo processo, ai “piani alti” del sistema finanziario italiano troviamo Unicredito, che dal 18% scenderà al 9% di Mediobanca, dove ha fatto nominare Geronzi alla presidenza del consiglio di sorveglianza. Mediobanca a sua volta con il 15,7 % di Generali, che hanno il 5% di IntesaSan Paolo. Mediobanca e IntesaSanPaolo hanno ciascuno il 10,6% , e Generali il 28% ,di Telco che ha il 23% di Telecom. IntesaSan Paolo potrebbe diventare il socio forte di Alitalia. E tutti i soggetti sono soci di RCS, editore del Corriere della Sera. E’ legittimo chiedersi: era questo risultato che si aveva in mente quando si è iniziato il processo di privatizzazione del sistema finanziario italiano?

Ben diverso è stato quello che è successo nei settori dove operano le grandi aziende di Stato, anche quelle che sono state solo parzialmente dismesse. Enel, con l’operazione Endesa, è sulla strada di diventare la prima utilità europea, sol che lo Stato venda la sua partecipazione, che ora non ha più ragione di detenere. Autostrade è stata privatizzata con un contratto che ex post ( e post calo dei tassi di interesse) si è rivelato eccessivamente vantaggioso per l’acquirente: invece di rinegoziare il contratto, questo Governo ha penalizzato l’azienda, impedendole di unirsi ad Abertis e diventare la prima azienda europea di infrastrutture. Nella telefonia, il mercato italiano è vivacemente concorrenziale; Telecom poteva anch’essa trovare stabilità diventando un’azienda europea affiancando all’azionista italiano, che ha pagato caro un errore di valutazione, la spagnola Telefonica: ma il potere politico ha preferito che fosse il sistema finanziario italiano a fare da contraltare al partner industriale spagnolo. Riassumendo, lo Stato non avrà magari liberalizzato abbastanza prima di vendere, non avrà estratto tutto il valore dalle sue aziende, avrà pure commesso errori anche dopo: ma i mercati sono concorrenziali, i mercati finanziari ne hanno ricevuto un impulso, le aziende sono discretamente efficienti. Se nessuna di esse è diventata un leader mondiale, è per l’incapacità dei nuovi management, o per il perdurare dell’eredità genetica di essere nate e cresciute in ambiente protezionista?

Non stupisce che in tanti critichino le privatizzazioni delle industrie: ex ante in molti, io fra quelli, avevamo mosso critiche e formulato proposte, ed ex post si può sempre immaginare di far meglio. Stupisce piuttosto che nessuno critichi i risultati dell’altra privatizzazione, quella del sistema finanziario e del compatto viluppo che abbiamo descritto. E non si dica che, dopo che le banche sono state vendute e alle Fondazioni si è consentito di detenere partecipazioni nelle loro banche, oggi il Governo non può più fare nulla. Quell’intreccio non è solo la conseguenza di decisioni e comportamenti passati, ma anche e soprattutto di una pregiudiziale che Governo, partiti politici ( e fino a poco fa Banca d’Italia) fanno gravare sui mercati, e cioè di preservare l’italianità delle società coinvolte. E’ questo vincolo che cementa il blocco di quelli che abbiamo chiamato “ i piani alti” della finanza italiana. E un discorso sulle privatizzazioni che dia alla parola il senso ampio che si è detto deve per prima cosa porsi il problema di come eliminarlo.

Non si è posto il problema di riformare il sistema finanziario italiano, ma solo di fare delle buone plusvalenze, il fondo hedge Algebris che, con una partecipazione inferiore all1%, ha chiesto ragione delle performance non stellare, nel medio periodo, delle Assicurazioni Generali, indicandone le possibili cause nella complessa struttura proprietaria e nella ridondante struttura gestionale. Nella finanza internazionale i fondi “attivi” non sono una novità, è dovuto alla loro pressione se ABN è stata scalata, e un più redditizio spezzatino metterà fine all’ambiziosa ma inefficiente strategia di Gr….Gli argomenti con cui gli “attaccati” reagiscono sono sempre gli stessi due: l’accusa alle “locuste” che minano la stabilità delle aziende, privilegiano le strategie “mordi e fuggi”, mettono i campioni nazionali nelle mani di chissà chi; e quella di opacità, essere domiciliati in paradisi fiscali, e non sapere chi c’è dietro. Il prezzo che si paga per garantire l’italianità di Generali , e di Mediobanca che ne é il socio di riferimento, è che il futuro di una delle pochissime grandi imprese italiane dipende dall’armistizio tra Bazoli e Geronzi sulla scelta dei vertici.

Il vero scopo delle privatizzazioni è far sì che le aziende creino valore per tutti gli azionisti, non stabilità e potere per alcuni. Questo è esattamente ciò che si propongono di fare gli hedge fund, proprio perché sono senz’anima. Avrebbero molto da imparare da loro anche le Fondazioni.
Facciamo anche noi un sogno. Proviamo a immaginare quanto valore potrebbe estrarre la Compagnia di San Paolo dalla quota che possiede di IntesaSan Paolo se a qualcuno venisse in mente di farne il break up. Il valore delle sue azioni aumenterebbe e, vendendole, ne avrebbe di che “comperare” il Politecnico di Torino, consentendogli di mettersi fuori dal circuito delle Università statali, per seguire invece il modello delle grandi Università americane: i professori assunti sul mercato e pagati per le ricerche che sanno produrre, allievi selezionati da test di ingresso severi, rette elevate, borse di studio. Potrebbe essere l’avvio della più importante di tutte le privatizzazioni: quella della formazione.

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