Privatizzazioni, giornate buie

luglio 3, 1998


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


La presentazione del rapporto di Bankitalia al consiglio di amministrazione di BNL, la clamorosa rinuncia ai poteri operativi da parte di Sarcinelli, i pieni poteri dati a Croff, la decisione annunciata di procedere comunuqe alla privatizzazione di BNL sono l’epilogo che non é esagerato definire drammatico di un progetto che sembrava razionale, un epilogo da cui tutti gli interessati escono con le ossa rotte.

Come si ricorda, quando nel 1996 la Banca d’Italia e il Tesoro prima, e i contribuenti poi, dovettero intervenire per evitare il fallimento del Banco di Napoli, prese forma il progetto di fonderlo successivamente con la BNL e di privatizzare così entrambi. In questa prospettiva l’INA acquistò il 51% della Holding che a sua volta possiede il 60% della banca partenopea, la BNL il restante 49%. Sulla base di questo piano il Commissario van Miert accetto’ che il governo italiano salvasse il Banco di Napoli sottoscrivendo un aumento di capitale di 2,000 miliardi, riservandosi tuttavia di approvare definitivamente l’aiuto di Stato a progetto concluso. (Non è inutile ricordare che tale approvazione ancora non è stata concessa).
Questo era due anni fa. Due anni sono passati in discussioni, non tanto tra i due soci, quanto tra il presidente e l’amministratore delegato di BNL i quali, come é noto, hanno opinioni contrastanti su tutto, con grave danno per la banca loro affidata, senza che l’azionista Ministero del Tesoro faccia alcunchè per riportare la normalità al vertice della sua azienda. ( e poi si dice di Telecom!).
Sul modello di privatizzazione, public company o nocciolo duro, non c’é molto da discutere. Ciampi non ha preferenze ideologiche: già nel 1993, intervenendo in Senato nella polemica che allora correva tra Savona e Barucci, sostenne che il nocciolo duro andava benissimo purché pagasse il premio di controllo. Ma, a differenza di Comit e Credit, qui si tratta di due banche devastate da anni di gestione “partitica”, socialista a Roma, democristiana a Napoli, che hanno portato a write-off per 12.000 miliardi l’una e 3.000 l’altra (BNL, e probabilmente sono ancora insufficienti) e che dovranno affrontare le difficoltà di una fusione operativa. Pensare di mettere queste due aziende sul mercato senza un azionista forte (patrimonialmente) e capace (nel gestire) non è solo segno di grave leggerezza: se un’OPV di BNL fosse accompagnata da una martellante campagna pubblicitaria volta a presentare alle famiglie italiane questo investimento come una grande occasione (ripetendo l’esempio della Banca di Roma) saremmo ai limiti dell’imbroglio.
L’INA, che ha la maggioranza della Holding Banco Napoli, e che ha lavorato per due anni al progetto di fusione, si propone alla testa di un’alleanza con Credit Suisse e Banco de Bilbao: un modello organizzativo che vede insieme l’attivita’ di credito ordinario, quella assicurativa e quella di merchant bank, quest’ultima rappresentata dalla Warburg di proprietà di Credit Suisse. E’ l’assetto che i mercati oggi premiamo—vedi l’esempio della fusione tra Citibank e Travelers negli Stati Uniti.
Ina e soci hanno annunciato che sarebbero anche disposti ad acquisire la maggioranza assoluta, ma il Tesoro offre solo sotto il 30%: pensa che sia sufficiente ad assicurare la stabilità, e, giustamente, vuole che la società rimanga scalabile, in modo da lucrare in fase di OPV il maggiore valore che il mercato attribuisce ad una società scalabile.
E invece viene improvvisa la rottura. Il Tesoro pretende che gli acquirenti del nocciolo duro acquistino sulla base del prezzo che risulterà al momento dell’OPV, che si dovrà tenere in un momento imprecisato da qui alla fine dell’anno.
INA, che è una società quotata alla Borsa di New York e nel cui cda siedono rappresentanti di investitori istituzionali internazionali, ritiene di non poter sottoscrivere un impegno di ammontare imprecisato, che dipende dall’andamento della Borsa per un periodo indefinito. La richiesta sembra anche giustificata sul piano dell’equità: se il vecchio azionista, il Tesoro, fosse stato capace di ristrutturare la banca prima di venderla, sarebbe logico che esso lucrasse il maggior prezzo derivante dalla ristrutturazione. Ma cosi’ non è stato. Si vende un’azienda ancora da ristrutturare: a chi già paga il premio per il controllo non si può chiedere di aggiungere il rischio di Borsa al rischio industriale.
Così si viene al CdA di ieri: la lettura del rapporto della vigilanza della Banca d’Italia, lo scioglimento dello nodo al vertice di BNL, una prospettiva che contraddice i progetti annunciati e mortifica le aspettative generate, Comunque, senza l’accordo con l’INA, la fusione con Banco Napoli deve essere accantonata. La vicenda sembra talmente assurda, la rottura così pretestuosa, da far pensare più a un malinteso incattivitosi che a una divergenza strategica. Ma basta a spiegarlo l’onnipotenza del Tesoro dopo Maastricht, l’orgoglio un po’ altezzoso dell’INA, la debolezza dell’advisor (vedi caso, lo stesso di Credit e Comit!), e la greediness che probabilmente tutti li accomuna?
Si deve riconoscere che é tutto il processo di privatizzazione che é entrato in stallo. Certo, le grandi privatizzazioni, Enel ed Eni, sono usate da Rifondazione come strumenti per tenere sotto ricatto il governo. Ma poi si pensa a Valori che dibatte le “sue” Autostrade tra Bruxelles, la Corte dei Conti ed il Consiglio di Stato. Si pensa ad Alitalia e pur di venderla tocca far finta di non notare l’insolita figura dei sindacati azionisti. Si pensa a Finmeccanica, dove si deve contare sul sopravvenire della crisi asiatica per prendere atto della realtà e fare ciò che si sarebbe dovuto fare cinque anni fa. Si pensa a Torino e Milano, dove il comune vende quote di minoranza della sua azienda elettrica giurando che mai e poi mai cedera’ il 51% ( e c’é anche chi arriva a spacciarle per privatizzazioni!).
Si pensa alle fondazioni bancarie, dove ci si gingilla con incentivi fiscali e si cesella su nobili fini sociali: ma dove neppure una banca é passata al controllo del mercato, nonostante il potere di suasion morale e materiale di cui dispongono Banca d’Italia e Tesoro. Sicché il risultato netto é che le fondazioni, anzichè uscire dalle banche, stanno entrando nel controllo delle imprese: Telecom, FIAT e, per l’appunto, INA. E adesso la fine di INA-BNL-BancoNapoli.
Uscendo dal cda di BNL il Direttore generale del Tesoro, Mario Draghi, ha dato una risposta lapidaria: “concentriamoci sulle cose che contano”. Viene da prenderlo alla lettera. In mancanza di un indirizzo chiaro su BNL, come su tutte le vicende ricordate, il Tesoro si assumerebbe una responsabilità politica pesante: quella di fare di via XX Settembre non più un fermo ostacolo bensì la strada maestra percorsa dai Bertinotti e dai Nesi.

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