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Privatizzare? Si, ma con criterio

Pubblicato il 01/05/1995 @ 16:20 in Varie


Chi comprerà Enel, Stet, Eni? Che, alla (presunta) vigilia della loro privatizzazione ancora ce lo si domandi, è un’ulteriore dimo-strazione dei limiti di un processo cui sono mancate fin dall’inizio priorità precise. La domanda non riguarda solo l’identità dei soci, ma anche la loro idoneità a esercitare la funzione di controllo e di supervisione sul management.

Nei paesi anglosassoni il controllo è affidato a una pluralità di mercati, tutti provvisti di meccanismi di exit e di voice, per usare le espressioni di Hirschmann. Il mercato azionario dove i fondi di investimento esercitano un controllo sull’operato degli amministratori; il mercato dei fondi pensione, che scelgono i fondi di investimento; il mercato degli
analisti finanziari, periodicamente valutati per la correttezza delle loro previsioni; il mercato infine dei beni e dei servizi offerti dalle aziende, che registra le preferenze di clienti e utenti, cui una reale concorrenza consente reali possibilità di scelta. Il fatto è che nessuno di questi mercati esiste :n Italia, perlomeno non con dimensioni o caratteristiche adeguate alla magnitudine del compito.
Per capire in quale direzione si stia muovendo il governo abbiamo le dichiarazioni del presidente Dini in Asso-lombarda il 27 Marzo: «Con la realizzazione del programma di dismissioni (delle attività bancarie) le fondazioni (…) verranno a disporre di ingenti risorse liquide finanziarie. Potranno così investirle in settori diversi da quelli bancari, rea-lizzando così una figura di investitore istituzionale fin qui largamente assente nel nostro paese. È dunque necessario che emergano con maggior forza gli elementi di natura privatistica già presenti nelle fondazioni (…). I necessari criteri di diversificazione del rischio (…) ovviamente escludono che le fondazioni assumano posizioni di controllo nelle grandi imprese privatizzate».
Poco prima, Dini aveva anche affermato che «le banche rivestono, sotto diversi profili, un ruolo del tutto particolare, nei processi di privatizzazione delle imprese di proprietà pubblica».
In sostanza la compagine azionaria dovrebbe vedere la presenza di: un gruppo di azionisti industriali legati tra loro da patti non espliciti; le fondazioni, ma non in posizione di controllo; infine le banche. Di queste peraltro non è chiaro quale sia il «ruolo del tutto particolare»: classare le azioni presso il pubblico, rendere disponibili risorse per le fondazioni (essendo «esse stesse oggetto di privatizzazione»), oppure sottoscrivere capitale di rischio.
Se così è, si ha qualche difficoltà a individuare quali meccanismi di mercato avranno il ruolo di esercitare un’azione di controllo sull’operato del management. Assai indiretto quello esercitato dagli azionisti delle società del nucleo industriale, mediato com’è dalle numerose e diversificate attività dei gruppi piramidali. Assai peculiare quello da esercitare da parte delle fondazioni: i loro vertici (norminati da chi?) da un lato devono adottare comportamenti adeguati alla loro natura istituzionale, dall’altro sono però tenu (o obbligati? e da chi?) a investire ingenti risorse in modo vo. Dal punto di vista della accountabilty e della trasparenza della linea di responsabilità gestionale, si rischia piangere l’IRI ed il ministero delle Partecipazioni Statali.
Ma, si dice, gli investitori istituzionali par excellence, i fondi pensione non ci sono. Il gradualista ottimista sosterrà che un giorno ci saranno, altri potrebbe però nutrire dubbi più radicali: siamo sicuri che il nostro sistema possegga meccanismi per convergere verso quel capitalismo che plicitamente prendiamo a modello e di cui si diceva all’inzio? In modo ancora più crudo: quel modello di capitalismo e quei tipi di controllo di mercato, sono compatibili con modello, sia pur riformato, di welfare cui le società europee. ed in particolare quella italiana, sembrano inestricabilmente legate?
Stando così le cose si può provare a trarre alcune considerazioni e suggerimenti.
1. Se i mercati finanziari non possono offrire quei meccanismi di controllo di cui si diceva all’inizio, bisogna po-tenziare l’unico di cui disponiamo: quello dei beni e servizi forniti dalle aziende di pubblica utilità. Strumento lento nel segnalare le inefficienze: ma in mancanza d’altro diventa più importante il ruolo degli utenti, che con il loro potere di scelta (di exit) sanzionino l’operato degli amministratori. Proprio per la natura dei nostri mercati finanziari, da noi diven-tano più importanti gli assetti di mercato che quelli proprietari, la liberalizzazione che la privatizzazione.
2. Se non ci sono investitori istituzionali italiani, dobbiamo inserire le aziende privatizzate nel circuito degli in-vestitori esteri, non solo per attrarre capitali, ma per importare regole e comportamenti. Si pensa qui a una duplice pre-senza, e di investitori istituzionali e di partner industriali, che si garantiscano reciprocamente; a essi verrebbe richiesto di utilizzare non solo il meccanismo disruptivo dell’exit, ma anche quello educativo della voice.
Perché ciò possa avvenire, sarà necessario adeguare la nostra legislazione per quanto riguarda la raccolta e l’esercizio delle deleghe, le responsabilità degli amministratori, specie di quelli dei gruppi piramidali: primi passi verso la soluzione del problema della corporate governance nel nostro paese. Compito certo dei precedenti assai più impegnativo e ambizioso, che qui si evoca solo per dimostrare che riserve di ottimismo possono coesistere col più pessimistico realismo.

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