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Privatizzare è la vera cura

Pubblicato il 07/08/2015 @ 09:49 in Giornali,Il Sole 24 Ore


Fatte le nomine, è iniziata la nuova serie di uno sperimentato genere letterario, i commenti sulle nomine: qualche new entry, SamuRai copyright Sechi, qualche répéchage, Raibaltoni, già attestato vent’anni fa. Trovo invece più interessante, e magari più utile (non si invecchia mai) ragionare, e ricordare, quanto è stato detto e scritto prima delle nomine, sul metodo e sui criteri con cui si sarebbe dovuto scegliere l’organo di governo della RAI: con rare eccezioni, stessi discorsi, stessi auspici, stessi lamenti, come se il tempo si fosse fermato, e si fosse ritornati a tanti anni fa, diciamo, per non andare troppo indietro, al 2004 della legge Gasparri.

Ci sono quelli che parlano di BBC, un sub-genere nel genere, chi per prenderlo a modello, chi per rifiutarlo in nome di un modello autoctono. Ci sono quelli che vorrebbero nomine per concorso, raddoppiando così la partitoscopia, oltre che sui nominati anche sui saggi che dovrebbero selezionarli. Ci sono quelli per cui il governo dovrebbe poter controllare quella che è comunque una sua azienda; e quelli per cui il controllo dovrebbe essere del Parlamento, con la commissione di vigilanza a far l’equivalente del consiglio di sorveglianza in un’azienda a governance duale. La sola novità rispetto al 2004 è che oggi è principalmente l’opposizione interna della maggioranza a stracciarsi le vesti per quello che, a suo dire, è un altro passo della deriva autoritaria, che del Governo Renzi sarebbe la vera cifra.
ll quale Governo, con tanti fronti aperti, una difficile navigazione tra i numeri in Parlamento, considerando che qualsiasi riforma RAI produrrebbe lacerazioni nella maggioranza e sollevazioni nell’opposizione, insediato il consiglio, chiamata alla presidenza una persona con le capacità di Monica Maggioni, potrebbe scegliere di lasciare le cose come stanno, e di riparlarne fra tre anni: non ci si sentirebbe di biasimarlo.

Eppure….Eppure ci sono pure le ragioni per cui varrebbe la pena prendere il cavallo di Via Mazzini per il morso, specie per chi, come Renzi, può vantarsi di avere “rottamato” l‘antiberlusconismo come strumento di battaglia politica e come momento unificante delle sinistre. Il patto del Nazareno, e la tecnologia, hanno posto fine alla guerra dei trent’anni televisiva, ma resta l’anomalia della RAI, azienda pubblica in un settore liberalizzato. Servizio pubblico, lo riconosce la legge, lo svolgono anche le televisioni private: e quindi per giustificare l’esistenza della RAI (e relativo canone) le si inventano missioni “pubbliche” che, o sono vaghe e indefinite, come promuovere l’identità italiana, o sono concrete e precise, e allora sconfinano nel politico e nel partitico. Vecchi discorsi, in un contesto di mercato completamente cambiato: in quel 2004 non c’erano video on demand, Netflix, Facebook, Twitter, senza contare Sky, oggi terzo polo televisivo. Ogni anno che passa si riduce la franchise della RAI, gli spettatori per cui è la principale fonte di informazione e di intrattenimento. La RAI somma i problemi dei suoi concorrenti privati a quelli di tutte le aziende pubbliche, cioè definire la strategia e selezionare il management: proprio i problemi che il mercato risolve normalmente. Ma privatizzare la RAI solleverebbe tempeste di fronte alle quali la nomina del CdA apparirebbe una brezzolina serale; senza contare che vendere quote di minoranza della RAI così com’è non ha senso, e non è così ovvio che si trovino acquirenti per il 100% di una o due reti.

Se vendere non è un’opzione, per risolvere i problemi di management e di strategia non c’è che esporre l’azienda al mercato. Allora il canone si rivela per quello che è, un sussidio, e quindi va eliminato. Di conseguenza bisogna anche uniformare i tetti all’affollamento pubblicitario, oggi per la RAI più basso che per Mediaset, un problema anche politico, da affrontare con gradualità. Levare il canone ha due conseguenze: rimpiazzare i 300 milioni l’anno versati da RAI a sostegno dell’industria dell’audiovisivo (produzione di film e di prodotti televisivi); ridurre il costo del personale, tagliando stipendi di alcuni e riducendo il numero di dipendenti di alcune migliaia di persone.
Il primo si può risolvere come in altri paesi europei, in cui lo stato è investitore di minoranza nella produzione di contenuti. Per quello dei dipendenti non c’è alternativa: bisogna che il Governo accetti di avere 4-5000 disoccupati in più a Roma, e si faccia carico di trovare mezzi rendere sostenibile il problema. Sicuramente non facile e costoso. Ma è lì che si fonda l’occupazione partitica, ed è per difenderla che si combattono tante battaglie intorno alla RAI.

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