Privatizzare con la concorrenza

maggio 28, 1998


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


Seguire meno le ideologie e più i propri interessi, fornire gli strumenti perché i cittadini informati scelgano i loro amministratori sulla base dei costi e della qualità dei servizi: non serve solo all’efficienza, serve alla democrazia

Che cosa hanno in comune Borghini, Formentini, Albertini, Castellani? Che, sindaci di due grandi città non sono riusciti a vendere le farmacie comunali: come invece si erano impegnati a fare.

Già nel 1992, con un gruppo coordinato da Marco Vitale, presentammo all’allora sindaco Borghini piani per la privatizzazione di tutte le aziende del Comune di Milano. Ma, a oggi, Milano possiede ancora le sue 84 farmacie e la Centrale del Latte. Torino indirà a giorni la gara per vendere le prime 3 delle sue 42 farmacie.
«Ti propongo un patto», ho immaginato di dire al Sindaco della mia città, «le tue aziende opereranno in bacini di utenza ampi e razionalmente disegnati, e non avranno più limiti: forti dell’esperienza fatta nel capoluogo, aziende “serie” come le nostre potranno conquistare nuovi territori. Il laro valore commerciale aumenterà anche per un altro motivo: invece di dover mediare con tanti Comuni, interfacceranno un’unica autorità amministrativa, a Torino l’area metropolitana, altrove l’associazione dei Comuni del bacino ottimale. La contropartita? Che tutto vada a gara, una gara che veda privati e pubblici competere in effettiva par condicio. Non potrai più usare del tuo “dominio” sul territorio per organizzare come servizio pubblico ciò che invece deve essere affidato al mercato (ad esempio la cablatura); non potrai affidare senza gara l’illuminazione pubblica all’azienda municipale. La legge che presenterò non ti obbligherà a vendere, puoi farlo o non farlo, in tutto o in èparte: ma sappi che i cittadini conosceranno i risultati economici delle tue scelte, li potranno confrontare con quelli di altre amministrazioni. E che ti giudicheranno in base ad esse».
Il disegno di legge traduce in articoli questo dialogo immaginario- In sintesi:

1. Il valore che giustifica l’intervento del legislatore è la concorrenza. Fin dal titolo, il disegno di legge dichiara che l’apertura del mercato è il primo obiettivo.
2. La legge non fa ricorso né a divieti, tra l’altro illegittimi per ragioni costituzionali, né a obblighi: non proibisce ai Comuni di fornire servizi direttamente, non impone di trasformare tutte le aziende in società per azioni, o di dover pareggiare costi e ricavi proibendo i trasferimenti pubblici. Men che mai obbliga forzosamente i Comuni a vendere. Non chiede di istituire nuove autorità, allo scopo bastano le esistenti. La sola cosa che chiede è che ogni servizio venga assegnato sulla base di gara, e in reale par condicio tra concorrenti pubblici e privati.
3. In molti casi la dimensione municipale impedisce di raggiungere economie di scala. Le Regioni dovranno individuare entro sei mesi gli ambiti territoriali ottimali per ciascun servizio, e si impone ai Comuni compresi nell’ambito di costituirsi in associazione apportandovi i propri poteri amministrativi relativi alla fornitura dei servizi.
Questo è il “trucco” per realizzare la separazione tra attività amministrativa e gestionale (le associazioni non posso gestire). Le società operative, liberate da gretti municipalismi, regolate da un’unica autorità amministrativa, saranno spinte a trovare gli assetti proprietari e organizzativi (trasformazioni societarie, fusioni, vendite parziali o totali) atti a reggere il confronto competitivo.
4. I cittadini devono sapere quanto costano, come tariffe o come imposte, i servizi di cui godono, e devono poter fare confronti con quanto hanno e pagano gli altri.

Non è che siano mancati i tentativi di intervenire sul piano legislativo: ci ha provato il Governo con il lungo “emendamento Vigneri” (in sede di revisione della legge 142/90), ma l’ha dovuto ritirare.Ha quindi messo al lavoro un gruppo di illustri economisti e giuristi, presieduto da giacomo Vaciago, che, relatore Luigi Prosperetti, ha condensato le sue raccomandazioni in ben 51 punti (e non sarà facile tradurle in articolato). Eppure il settore dei servizi pubblici locali muove 50mila miliardi di fatturato annuo, occupa 250mila addetti. In Italia ci sono oltre 20mila acquedotti; oltre 7000 società di distribuzione del gas, per la maggior parte pubbliche; 93 compgnie elettriche, tra quelle che producono e distribuiscono e quelle che forniscono servizi di illuminazione, di cui una sola, la Silfi di firenze, è stata finora privatizzata. E, pur non essendo servizio pubblico, completano il quadro le 81 Casse di Risparmio, di cui 35 “piccole”: che vogliono che non cambi nulla, stando a quanto scrive il presidente della Cassa di Fossano, Antonio Miglio, sul “Sole-24 Ore” del 20 maggio.

Ci sono numerosi settori, ha denunciato il presidente dell’Antitrust Tesauro nella sua prima relazione, in cui «l’amministrazione pubblica fornisce direttamente una quota molto consistente della domanda e nei quali i beni e i servizi offerti vengono pagati dai consumatori a un prezzo significativamente inferiore al costo di produzione. […]
I disavanzi gestionali sono coperti da finanziamenti pubblici e ciò introduce nel sistema economico privilegi che riguardano sia i lavoratori di queste industrie, che possono mantenere posti di lavoro e mansioni che altrimenti il mercato non consentirebbe, sia gli stesi comportamenti d’impresa, non favorendo l’aggiustamento dell’offerta alle esigenze anche qualitative della domanda».
Perché è più difficile vendere le farmacie che Telecom, la Cassa di Risparmio di Fossano che il S.Paolo? A livello locale, ancor più che a livello nazionale, l’intreccio tra potere e ideologia sembra inossidabile, resiste ai cambiamenti dell’economia e della politica, alle procure e a Maastricht.
Ogni acquedotto, ogni azienda elettrica, ogni Cassa di risparmio sono consiglieri di amministrazione che si possono nominare, aziende che possono assumere, imprese che possono fare commesse. Anche in assenza di fatti con rilievo penale questa è già corruzione del mercato, furto di spazi all’iniziativa economica, malversazione del tempo che i politici, quando si sostituiscono agli imprenditori, sottraggono ai compiti per cui sono stati eletti.
Bisogna sapere qual è il vero ostacolo che si ha di fronte. Questo stato di cose non si poteva formare e non potrebbe permanere senza una copertura ideologica, senza che fosse coltivata e diffusa l’idea che il dirtto dei cittadini a poter usufruire di servizi pubblici possa essere soddisfatto solo imponendo all’amministrazione il dovere di fornirli e non utilizzando un altro diritto, quello dell’impresa di ricavare una giusta remunerazione.
Contro un ostacolo ideologico, più che la legge ordinaria, servirebbe la legge costituzionale, il principio di sussidiarietà che si è tentato di introdurre, per ora senza successo, all’articolo 56. Contro l’ideologia non serve l’uso della giustizia penale, a meno di inquinare anche questa affidandole battaglie di sistema. Contro l’ideologia fatica anche l’arma del maggioritario: trasversale è la resistenza a perdere il puntello del potere economico, se dopo sei anni Milano e Torino non sono riusciti a vendere neppure le farmacie. Seguire meno le ideologie e più i propri interessi, fornire gli strumenti perché i cittadini informati scelgano i loro amministratori sulla base dei costi e della qualità dei servizi: non serve solo all’efficienza, serve alla democrazia.

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