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Privatizzare aprendo alle imprese

Pubblicato il 29/04/1999 @ 12:48 in Giornali,Il Sole 24 Ore


“Lo sviluppo da consentire” é l’obbiettivo che la politica deve porsi

Come quelli che l’hanno preceduto nella serie, anche questo articolo comparirà sotto il titolo “lo sviluppo da rilanciare”. Ma la locuzione a me pare logicamente contraddittoria, dato che ha in sè la negazione del proprio assunto; infatti, se lo sviluppo é l’obbiettivo, proporsi di “rilanciarlo” non indica una soluzione, ma piuttosto crea un problema. “Lo sviluppo da consentire”, questo é il titolo che vorrei; perché questo é l’obbiettivo che la politica deve porsi.

Chi coltiva l’idea che lo sviluppo possa essere “rilanciato” ritiene che sia compito della politica sostituirsi alla libera determinazione degli imprenditori, pensa di avere più elementi per giudicare delle loro scelte, in una parola crede alla politica industriale, “espressione ambigua e inquietante sia nel sostantivo che nell’aggettivo,che evoca un’esperienza bocciata dalla nostra storia” (Massimo Lo Cicero “Dopo le regole, bisogna educare i giocatori” Il Sole 24 Ore del 22 Aprile).
Lo sviluppo – a parole ormai tutti lo riconoscono – lo fanno le imprese, dunque gli imprenditori. Le loro scelte strategiche sono influenzate anche da elementi culturali, di essi deve tener conto la politica, quella senza aggettivi: ma ricordando che sono dati del problema, e a chi deve risolverlo poco giova il criticare i dati.
Il Ministro Ciampi é stato sferzante con gli imprenditori, “senz’anima”, li ha chiamati. Ma posto che questi sono i nostri imprenditori, e che non é possibile cambiarli con altri – anzi, stando ai giudizi che di essi dànno osservatori stranieri, non pare neppure conveniente – si possono solo peggiorare le cose pensando di sostituirsi a loro, suggerendo che cosa debbono fare. Il Governo ha moltissimo da fare, “produrre beni pubblici, ridurre le incertezze, ridurre il peso di organizzazioni che agiscono in nome dello Stato ma non rendicontano ad alcuno dei risultati dell’azione”, come scrive Lo Cicero. Ma non deve pensare di essere il motore dello sviluppo.
Se per lanciare – a maggior ragione quindi per “rilanciare”- ci vuole una forza, questa forza é l’interesse degli imprenditori. Lo é per una semplice ragione: perchè non ce ne é un’altra. I governi possono solo rimuovere gli ostacoli che ne impediscono il funzionamento. La prospettiva in cui devono lavorare i Governi non é quella del fare, ma del levare gli impedimenti a fare: di “consentire lo sviluppo”.
Le privatizzazioni restituiscono settori di attività all’iniziativa privata; sono indispensabili per “consentire” agli imprenditori di cimentarsi in campi finora preclusi. Ma nel realizzarle non é questo il primo obbiettivo a cui si é mirato. Infatti se lo Stato, nel momento in cui smette di fare l’azionista, impone di mantenere l’integrità del complesso aziendale, non “consente” agli imprenditori di sviluppare iniziative in quelle aree di business che potrebbero essere vantaggiosamente fatte uscire dal vecchio perimetro, essendovi entrate per ragioni che oggi più non sussistono o che non sono mai sussistite. Un esempio: non é stato certo per ragioni di efficienza che a suo tempo Finsiel é finita in Stet; ma vendendo Telecom tutta intiera, agli industriali del software non é stato di fatto “consentito” di partecipare alla privatizzazione.
Abbiamo scampato, grazie a Giuliano Amato, il rischio di “privatizzare” vendendo ai BOT-people le azioni dell’IRI tutt’intera; ma quando si é trattato di ENI e di Telecom, di Enel e Finmeccanica, o delle banche delle fondazioni, anzichè “consentire” a imprenditori di sviluppare le proprie strategie, si é preferito chiedere a investitori di “rilanciare” le holding quali le formò la politica delle partecipazioni statali. Considerazioni analoghe si potrebbero fare per le Ferrovie, o per le municipalizzate; quanto alle Poste addirittura non si “consente” ai privati neppure più di fare quello che facevano prima.
“Consentire lo sviluppo” significa privatizzare avendo riguardo allo specifico del nostro sistema di imprese, dunque anche alla sua struttura dimensionale; e questa dipende dalla specificità delle produzioni, dalle condizioni di competizione sui mercati, dalla dotazione di esternalità, dal confronto tra i costi di transazione e quelli di organizzazione.
Ciò che invece é accaduto, é che in luogo di privatizzare “consentendo” alla nostra struttura imprenditoriale e finanziaria di fertilizzare i campi da cui per tanto tempo era rimasta esclusa, si assegna all’azienda privatizzata il mandato di essere una grande azienda italiana nel mondo.
Si deve al complesso di inferiorità per le classifiche di Fortune 500, e al mito della dimensione come valore se é stato possibile proporre di apportare Telecom Italia in Deutsche Telekom; un’azienda privatizzata in una che lo sarà quando e nei modi che altri decideranno. E non si vede perchè essi dovrebbero preoccuparsi troppo di “rilanciare” o di “consentire” il nostro sviluppo.

Il mito della dimensione aziendale come valore, empiricamente infondato, é oggi messo in dubbio anche sul piano teorico, come scrive Peter Martin ( On a life support, Financial Time 20 Aprile 1999). Un’impresa – sostiene la moderna teoria di strategia aziendale– é solo uno strumento per raggiungere determinati fini, un insieme di contratti, di relazioni, di beni; ma poichè queste cose hanno valore di per sè, l’impresa si giustifica solo se aggiunge di suo qualcosa in più; altrimenti dovrebbe scomparire per consentire ai suoi beni di essere usati più efficacemente da altri.
Da tempo é invalsa la pratica di vendere e subcontrattare attività marginali; bisogna andare oltre, e chiedersi se ogni bene e attività non può essere maggiormente valorizzata nelle mani di altri.
Le acquisizioni fatte con scambio di azioni anzichè per contanti favoriscono la tendenza dei manager a schivare la domanda, mantenendosi nell’ambigiuità. Proprio ragionando sulle due strade che potrebbe prendere Telecom – l’OPA Olivetti sul tappeto o l’OPS con Deutsche che si ipotizza – Peter Martin si chiede se non sarebbe meglio per gli azionisti, per i clienti e, in ultima analisi, anche per i dipendenti di Telecom, “ dividere il business nei suoi componenti – immobili, infrastruttura, comunicazioni a lunga distanza, ultimo miglio, assistenza tecnica, e così via – e venderli separatamente.
Questo solo per quanto riguarda l’efficienza aziendale; ma se l’obbiettivo é l’efficienza del sistema, fa impressione pensare quante energie imprenditoriali si potrebbero sviluppare, quante iniziative potrebbero sorgere se la strategia delle privatizzazioni fosse quella di “consentire” al più gran numero di imprenditori italiani di parteciparvi, in modo particolare nell’area dei servizi, che certamente si localizzano qui e non nei paesi a basso costo del lavoro. Sarebbe una strategia di realismo, quel realismo che sembra ispirare le parole di Massimo D’Alema quando, facendo il bilancio dopo 100 giorni del patto per lo sviluppo, nota che , in un paese con la storia istituzionale e economica del nostro, la maggior crescita non dipende tanto dai modelli e dalle indicazioni provenienti dall’autorità pubblica, quanto dalle energie che devono sprigionarsi dal tessuto economico e dal mondo imprenditoriale. E sarebbe un modo per uscire da una polemica che, formulata come è stata finora, imputando cioé alle forze economiche una sorta di “resistenza” a un maggiore impegno proposto dal Governo, non giova a nessuno.

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