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Presunto progressista

Pubblicato il 29/11/1993 @ 18:10 in Giornali,La Stampa


Temo che, dopo l’articolo di Gianni Vattimo (“Ripensare il buon progressista” La Stampa di venerdi’), il numero di chi,come il sottoscritto, si considerava progressista si sia ridotto di molto: chi si riconosce in quella descrizione?
Progressista sarebbe colui che rifiuta le pure e semplici logiche delle leggi economiche. Il criterio rischia di produrre significative esclusioni: non vi rientrerebbe Keynes, che pur sarebbe difficile includere tra i conservatori; e tanto meno Marx, che proprio dalla ferrea logica di leggi economiche traeva la teoria dell’inevitabilità della crisi del capitale e che non risulta vedesse nella solidarietà il mezzo per travalicarne i limiti. E neppure lo stato sociale tedesco, basato su un calcolo economico rigoroso.

Il progressista, precisa Vattimo, non ignora la razionalita’ economica, solo ne disconosce il carattere “naturale”. E qui il criterio include praticamente tutti: i mercati sono costruzioni complesse, che tutti i governi, progressisti o conservatori, regolano con infinite norme – fiscali, valutarie, tariffarie- ; in particolare imponendo quelle in favore della concorrenza per evitare la “naturale” (questa si’) tendenza alla concentrazione monopolistica. Anche Margaret Thathcer e Ronald Reagan progressisti?
Ma il progressista alla Vattimo si distinguerebbe perche’ fa riferimento a un’ispirazione morale. A parte il fatto che sembra poco progressista demonizzare un avversario chiamandolo immorale, anche questo criterio appare poco discriminante: Adenauer, De Gaulle, Einaudi immorali o progressisti? E poi: e’ piu’ morale distribuire risorse o sollecitarne la creazione? dare sussidi in danaro o in prestazioni? La non moralita’ non e’ criterio di definizione, ma di esclusione dalla politica: sembra che gli italiani dimostrino di averlo capito.
Il criterio veramente distintivo sarebbe la “solidarieta”: parola inflazionata, che Edmondo Berselli, sul Mulino, suggerisce di consegnare tra le espressioni impronunciabili. Un criterio che vien usato per accreditare” l’esistenza di due unita’ separate, per affermare un’oggettiva opposizione tra i sostenitori della solidarieta’ e tutti gli altri. Ma quando in un momento successivo, la misura della solidarieta’ dovrà trovare una sua articolazione politica, le gradazioni della solidarieta’ risulteranno necessariamente infinite.
Data l’asserita centralita’ del concetto, converra’ approfondire. Una prima accezione di solidarieta’ e’ legata ad una visione stazionaria della societa’, per cui compito della politica sarebbe quello di distribuire egualitariamente quote di una ricchezza data, lo stesso principio per cui ci sarebbe una quantita’ data di lavoro da distribuire equamente tra tutti; una visione essenzialmente pessimistica sulle capacita’ di sviluppo della societa’, per cui ci sarebbe solo da distribuire poverta’: visione che sembra in contrasto anche con il contenuto semantico minimo della parola “progressista”.
Piu’ sovente chi invoca solidarieta’ intende sottrarsi al vincolo di compatibilita’: Non bastano le parole ad esorcizzare il pericolo dell’assistenzialismo se non si e’ convinti che non si puo’ distribuire cio’ che prima non si e’ prodotto: l’indebitamento dello stato, causato primariamente dalle prestazioni previdenziali ed assistenziali, produce ingiustizie sociali e redistributive, e una dissennata assenza di solidarieta’ verso le generazioni future; i percettori di pensione fingono di ignorare che la loro pensione non deriva da capitalizzazione dei loro contributi, ma viene pagata da chi lavora adesso. E, anche a voler considerare le pratiche clientelari e di corruzione un irripetibile accidente della storia, lo stato sociale comunque comporta burocrazie ipertrofiche, e la solidarieta’ fornisce giustificazione al loro autoperpetuarsi.
Non e’ con l’ispirazione morale, ne’ con l’appello convenzionale alla solidarieta’ che riusciremo a costruire una politica progressista. Questa si definisce nella scelta e nell’equilibrio degli interessi, assumendo, tra i dati dell’agire politico, la drammaticita’ della vita sociale, compresi i suoi aspetti economici.
Forse, piu’ che ripensare il buon progressista, e’ il buon progressista che deve ripensare alcune cose: il profitto, innanzitutto, l’ineliminabile durezza del processo economico, i vincoli e le responsabilita’ di tutti; e il mercato, non l’astrazione il cui funzionamento giustificherebbe le sofferenze individuali, ma il luogo in cui fisicamente si coordinano l’infinita’ delle decisioni economiche. Dovra’ mostrare di aver imparato qualcosa dalle lezioni del 20esimo secolo, comprese le occasioni mancate, amiche’ rimandare un’eco lontana degli argomenti dei socialisti fabiani del secolo scorso. Al buon progressista si richiedono, piu’ che imperativi morali, inventiva e rigore, anche per trovarsi, e scegliersi, i compagni di strada: meglio un La Pira in meno e qualche “buon conservatore” in piu’.

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