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Presentazione dell’enciclica "Caritas in veritate"

Pubblicato il 03/11/2009 @ 22:10 in Convegni

bocconi-logoCardinale Dionigi Tettamanzi, Arcivescovo di Milano

di Franco Debenedetti

Saluto Mario Monti
Introduzione Guido Tabellini
Interventi Piergaetano Marchetti, Giuseppe Guzzetti, Franco Debenedetti
Modera Dario Di Vico

Intervento di Franco Debenedetti

Un’enciclica si rivolge a ciascun uomo, ma non a tutti gli uomini dice le stesse cose. Ai credenti illustra l’essere e prescrive il dover essere alla luce della trascendenza.
Ai non credenti, sia quelli che non sono eredi della cultura giudaico cristiana, sia quelli che proprio in quella cultura trovano fondamenti per una “visione empiristica e scettica” (§ 9) del mondo, senza bisogno di “una visione trascendente della persona” (§11), a loro l’enciclica chiede “collaborazione fraterna” (§55).


Quando la voce del pastore ha gli accenti del profeta, le due letture, del credente e del non credente, possono avvicinarsi molto. Questo Papa invece ha la voce del dottore e del maestro, i suoi terreni di elezione sono l’ortodossia e l’etica.
“Il principale consulente di Benedetto XVI per l’enciclica – nota argutamente il card. Tettamanzi – è stata la crisi”. Sull’economia si confrontano posizioni diverse. Per l’enciclica:
L’economia, come teoria e come attività, non è autosufficiente.(§34)
Il mercato “non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare” (§35).
Lo Stato deve far sì che “i canoni della giustizia [siano] rispettati sin dall’inizio, mentre si svolge il processo economico, e non già dopo o lateralmente”(§37).

La soluzione per Benedetto XVI è “caritas in veritate” che “pone l’uomo davanti alla stupefacente esperienza del dono” (§34) . Alla sussidiarietà, verticale e orizzontale, sono ispirate le pagine più convincenti di questa enciclica. Ma evidentemente la sussidiarietà, per quanto importante, non esaurisce l’ambito economico.

E’ l’enciclica stessa a riconoscerlo in un passaggio centrale: testualmente (§ 45): “Occorre adoperarsi — l’osservazione è qui essenziale! — non solamente perché nascano settori o segmenti «etici» dell’economia o della finanza, ma perché l’intera economia e l’intera finanza siano etiche e lo siano non per un’etichettatura dall’esterno, ma per il rispetto di esigenze intrinseche alla loro stessa natura”.

“Osservazione essenziale” è piuttosto la separazione tra l’ambito della giustizia e quello dell’etica: Gesù fa scandalo e apre una nuova fase nella storia perché il suo messaggio é diretto a tutti i singoli uomini, non a un popolo, non a un gruppo, non alla gilda dei pescatori di Galilea. Se Cristo separa Cesare e Dio, e’ proprio perché i doveri etici con lui diventano non già prescrizioni pubbliche, ma questioni che si risolvono fra l’individuo e la sua coscienza. L’etica è cosa diversa dall’ethos: questo fa parte della cultura di una comunità, varia col tempo e nello spazio, adegua le norme del diritto e il modo di interpretale.

I principi etici entrano, insieme agli interessi, nelle decisioni degli individui: questi seguono quella che Guido Tabellini chiama logica situazionale, e Ludwig Von Mises profitto psichico. Ma Madre Teresa massimizza il proprio profitto psichico in modo diverso da un banchiere o da un industriale. L’etica è di scarso aiuto nel valutare e prevedere il risultato cumulativo di miliardi di quotidiane decisioni bilaterali. Le buone istituzioni devono essere pensate sulla base dell’assunto che, come dice l’enciclica, “l’uomo ha una natura ferita, incline al male, [e ignorarlo] è causa di gravi errori nel campo dell’educazione, della politica, dell’azione sociale e dei costumi (§34)”.

Manca, nell’enciclica, una corretta comprensione del mercato. Esso si baserebbe sul “principio dell’equivalenza di valore dei beni scambiati” (§ 35). In realtà nel mercato chi cede un bene in cambio di un altro lo fa perché valuta che ciò che riceve abbia un valore superiore a ciò che cede; non c’è equivalenza di alcun tipo, anche lì ci’è un “di più”, un’eccedenza. Il mercato, dove persone libere volontariamente si accordano su prezzi, salari, locazioni, prestiti è fattore di accrescimento generale, non può essere considerato “moralmente neutro”.
Invece il pontefice invita a rivalutare i poteri dello Stato: mentre sono unanimemente riconosciute le responsabilità dei poteri pubblici nel produrre la crisi (controllo della moneta, regolamentazione finanziaria, politiche sociali sulla casa, ecc.) e ci sono buoni motivi per ritenere che le loro scelte interventiste stiano aggravando la situazione.

Dice Benedetto XVI in una intervista citata dal Card Tettamanzi: “Tutti sappiamo che un elemento fondamentale della crisi è proprio un deficit di etica nelle strutture economiche; si è capito che l’etica non è una cosa fuori dall’economia, ma dentro e che l’economia non funziona se non porta dentro di sé l’elemento etico”. Tutti sappiamo? Si è capito? Necessita chiarire.
Ci sono le politiche economiche: le fanno i governi, le giudicano gli elettori, in modo diverso anche quando condividono gli stessi criteri etici. Il card Tettamanzi riconosce che “diverse e talora opposte tra loro, sono le visioni dell’etica economica”: e , nel discriminare, non è di grande aiuto precisare che c’è bisogno “ non di un’etica qualsiasi bensì di un’etica amica della persona”: quello, lo è per definizione.

Ci sono le “strutture economiche”, fatte, come dice Giuseppe Guzzetti, da persone che lavorano in imprese, organizzazioni, banche: da loro si richiedono doti di trasparenza e onestà, anch’esse categorie genericamente “etiche”.
E c’è l’economia come disciplina e metodo scientifico, quella che si insegna qui, in questa Università. Essa affina teorie e modelli, e si espone a vederli falsificati dell’esperienza. Ma invano si ricorrerebbe alle categorie dell’etica per trovare i determinanti dei fenomeni economici, per stabilire regole per gli operatori, o valutare effetti di innovazioni tecnologiche, disponibilità di risorse, fenomeni demografici, politiche dei governi. Quanto all’etica, per riprendere la famosa frase di Laplace, l’economia “n’a pas besoin de cette hypothèse”.

Chi lamenta che “l’economia non funziona se non porta dentro di sé l’elemento etico”, ritiene o che questo deficit di etica sia la causa della crisi; o che, colmandolo, si eviterebbero crisi future.
La prima tesi si riduce alla battaglia contro gli incentivi di top manager: tesi non scusabile, comprensibile solo in bocca a chi deve prendere i voti dei cittadini. La seconda tesi ignora la profondità e anche l’asprezza del dibattito corrente per disegnare un sistema finanziario che protegga i risparmiatori ma promuova gli investimenti, senza addossare allo stato il costo di garanzie, con l’annesso moral hazard che tanto ha giocato nel determinare questa crisi.
Attribuire la crisi al mancato rispetto di valori etici comporta la rinuncia a comprendere i cambiamenti epocali che l’hanno prodotta; pretendere che il rispettarli la eviti in futuro, significa offrire l’illusione di una falsa medicina.

E’ necessario fondare l’economia su basi di interesse e definire le regole su basi di diritto.
Lo è per ragioni di fiducia: perché gli uomini sappiano che la soddisfazione delle loro necessità non dipende dalle benevolenze di smithiana memoria.

Per ragioni di efficienza, perché così si riducono i costi di transazione.
Per ragioni di libertà individuale, possibile solo con un’economia autonomamente fondata.

“La Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire” si legge al § 9. Ma poi seguono precise analisi e indicazioni. Esempi:
Sulla proprietà: “l’accaparramento delle risorse, specialmente dell’acqua, può provocare gravi conflitti tra le popolazioni coinvolte” (§ 51). Cosa s’intende per accaparramento? Non bisognerebbe distinguere tra la rapina e la legittima appropriazione di un colono?
Sulla proprietà intellettuale: “ci sono forme eccessive di protezione della conoscenza da parte dei Paesi ricchi, mediante un utilizzo troppo rigido del diritto di proprietà intellettuale”. (§ 22). Se i brevetti sono proprietà, si può rimproverare Big Pharma di non aiutare abbastanza i poveri della Terra, ma non accusare di operare contro giustizia quanto tutela i diritti di chi le ha affidato i suoi risparmi.

Sugli aiuti al Terzo Mondo, l’enciclica ha critiche per le politiche di trasferimenti agli Stati: sarebbe meglio riconoscerne esplicitamente gli esiti catastrofici, e il ritardo nel prenderne atto.
Sulla delocalizzazione: se la globalizzazione ha salvato la vita di milioni di persone, perché (§ 40) accusare “la cosiddetta delocalizzazione dell’attività produttiva di produrre danni alla propria Nazione”? Perché si giudica che “valgano di più” i diritti dei lavoratori occidentali di oggi, che quelli dei lavoratori di domani, fra l’altro non occidentali? Nella sua cattolicità, la Chiesa non può avere argomenti a difesa del lavoro nazionale e contro il lavoro straniero.
Si critica la “crescita di una classe cosmopolita di manager” (§ 40). Eppure la Chiesa cattolica, più di ogni altra istituzione, nella storia umana, ha favorito il cosmopolitismo. Quando gli apostoli lasciano la loro terra per annunciare la Buona Novella a chiunque, ebreo o gentile, scelgono per patria l’intera umanità.

Analisi e indicazioni a cui è lecito fare critiche e contrapporre evidenze. Anche esse sono esposte alle conseguenze in intenzionali degli atti intenzionali. Ma se l’economia non è autonoma all’etica, se dipende dall’etica, allora le critiche mosse ad analisi e indicazioni fatte in materia economica, diventano necessariamente critiche ai principi etici. A ben vedere dunque, è l’etica per prima a trar vantaggio da uno statuto autonomo dell’economia.

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