Piketty, il gioco da tavola “Monopoli” e altri derivati del troppo moralismo

maggio 1, 2014


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di Maurizio Stefanini

In realtà, più che socialista, Thomas Piketty è il nuovo Henry George (m. 1897), segue quella linea che va da Platone a Ezra Pound e forse a Giulio Tremonti, passando per Maometto. Il titolo, “Le capital au XXIe siècle” nell’originale francese, passato quasi inosservato se non fosse stato per la traduzione in inglese, ammicca chiaramente a Marx. Anche se Piketty, figlio di genitori trotzkisti e sessantottini, dice espressamente di appartenere a una generazione che avendo compiuto 18 anni mentre cadeva il Muro di Berlino non ha rimpianti per il comunismo o l’Unione sovietica.

Il contesto lo ha invece fatto associare a Occupy Wall Street, anche se in realtà quel movimento è citato solo due volte, e per giunta definendolo “un po’ astratto”, anche se lo slogan “We are the 99%” avrebbe la stessa potenza del “Qu’est-ce que le tiers-état?” dell’abate Sieyès. Un suo punto di riferimento importante è invece Tocqueville, che vedeva nell’America una società molto più egualitaria dell’Europa.
Ma al di là di queste complessità intellettuali, al fondo l’analisi di Piketty è semplice e anche largamente diffusa nella storia del pensiero economico: probabilmente deviante rispetto al mainstream degli ultimi due secoli, ma destinata a ritornare a galla ogni volta che impazza una crisi come quella attuale. La ricchezza è buona, dice in soldoni il pensiero liberale: anche se con varianti che affermano come la sua gestione vada in qualche modo orientata. La ricchezza è cattiva, dicono il pensiero marxista e le altre varianti di anticapitalismo: anche se Marx era pronto a riconoscerle una funzione storica da compiere. Piketty dice invece che ci sono due tipi di ricchezza: una buona, che è il reddito; e una cattiva, che è la rendita.
Purtroppo, i dati da lui raccolti dimostrerebbero la legge “r > g”, la rendita cresce sempre più del reddito, in modo che i bravi imprenditori tendono fatalmente a trasformarsi in redditieri oziosi e parassitari.
Alla metà del XX secolo tale tendenza è sembrata arrestarsi, ma semplicemente perché sono venute due guerre mondiali e ridurre i patrimoni dei redditieri in briciole.
Con la pace, però, la legge “r > g” ha ripreso a funzionare in modo inesorabile, mettendo a rischio la sostenibilità del modello capitalista. Non essendoci altre guerre mondiali in vista, ci vuole allora un’imposta planetaria sulle grandi fortune.
A qualche lettore sarà allora venuto il dubbio: ma non è pure Beppe Grillo che distingue tra la ricchezza cattiva delle banche e quella buona dei piccoli imprenditori?
Sì, e non solo lui. Appunto, tutta questa crisi ha riportato a galla una distinzione tra economia reale ed economia finanziaria secondo la quale ci sono appunto ricchi buoni, che producono, e ricchi cattivi, che speculano. Nella sua forma più radicale questa idea ha assunto la distinzione nazista tra cattiva imprenditoria ebraica da eliminare fisicamente e buona imprenditoria ariana da sostenere. Ma era già la filosofia classica a distinguere tra attività economiche legittime e illegittime a seconda che si basassero sull’appropriazione o creazione diretta di beni o servizi o sull’intermediazione.
Con conseguenze che per noi sono curiose: per Platone e Aristotele un commerciante è un mascalzone, ma un pirata fa un’attività legittima. Le leggi sono poi evolute diversamente, ma ancora oggi è più facile fare dell’eroe di un film un pirata che un banchiere. Leggi anti usura e pogrom a parte, un’idea che torna periodicamente a galla è dunque quella di una tassa speciale o un meccanismo particolare che colpisca la ricchezza cattiva e solo quella. Per vari anni per esempio ha impazzato l’idea della Tobin tax sui movimenti finanziari a breve termine, considerati “speculativi” per definizione.
Soprattutto, però, c’è stata la Single tax di Henry George: un giornalista di Philadelphia il cui best seller “Progress and Poverty”, del 1879, fu uno dei libri americani più letti al mondo fino agli anni Trenta. La sua semplice tesi era che la proprietà della terra procurava un arricchimento ingiusto e puramente speculativo, e che dunque si sarebbe dovuto espropriarne tutti gli aumenti di valore non derivanti dagli sforzi o dall’intelligenza del proprietario. Una “imposta sulla terra” che secondo lui sarebbe a tal punto bastata a finanziare l’intera macchina dello stato da permettere di abolire ogni altra forma di prelievo fiscale, e di lasciarla come imposta unica. “Il suo caso rappresentò una precisa ma duratura dimostrazione del fatto che nessun giornalista può mai riuscire a farsi prendere sul serio come economista”, ha scritto John Kenneth Galbraith. Le teorie georgiste furono lo slogan della spettacolare vittoria dei liberali inglesi nel 1906; influenzarono il programma del Kuo-min-tang di Sun Yat-Sen; ispirarono la socialdemocrazia svedese, un partito danese e anche la riforma del diritto di proprietà fondiaria invano tentata in Italia da Fiorentino Sullo all’inizio del centro sinistra. Ma forse il suo lascito più duraturo è il gioco del “Monopoli”: inventato da una seguace di George, appunto, per esemplificare al grande pubblico il modo in cui la speculazione fondiaria funzionava.

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