Piccoli azionisti senza garanzie

luglio 20, 2004


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Economia e politica – L’ultimo libro di Mark Roe

“La socialdemocrazia non va d’accordo con le public company”: la frase suona, in Italia, come una doppia provocazione: perché la società ad azionariato diffuso è un mito della sinistra, realizza la “democrazia economica”; e perché la parola “socialdemocrazia” ha una carica storica e simbolica più pregnante dell’inglese “social democracy” di cui è traduzione. E’ invece proprio la tesi di “La public company e i suoi nemici” (Il Sole 24 ore, Milano, 25 .00€) di Mark Roe.

Nel suo precedente lavoro “Strong managers, weak owners” aveva studiato i rapporti interni alle società ad azionariato diffuso negli USA; in questo si propone di individuare le cause per cui esse fioriscono solo nel mondo anglosasssone, e invece stentano ad affermarsi con la stessa pervasività altrove.
Law matters: la tesi finora prevalente è che la ragione va ricercata nella mancanza di istituzioni legali a protezione degli azionisti di minoranza. Ma questo, obbietta Roe, può valere nei paesi in via di sviluppo, in cui la mancanza di protezione efficace per i diritti di proprietà é una delle cause della fragilità dei mercati mobiliari; non per le economie di grandi Stati industriali che hanno sistemi giuridici raffinati e sistemi giudiziari capaci di farli rispettare. E poi, dato che i sistemi di protezione legale delle minoranze sono ben noti, perchè non vengono adottati? Sono invece storiche e politiche, sostiene Roe, le ragioni per cui non si verifica la separazione tra proprietà e controllo: politics matter. E spiega: perché azionisti di minoranza affidino i loro soldi a manager, devono essere abbastanza sicuri che i questi lavoreranno nel loro interesse. Ma nelle socialdemocrazie dell’Europa continentale, i manager, sotto la spinta di pressioni sociali, politiche, sindacali, tenderanno a perseguire una strategia più attenta all’espansione che ai profitti. Inoltre, le socialdemocrazie sono poco inclini a mettere in atto le fondamentali istituzioni dei mercati azionari, perché storicamente meno interessate a sviluppare i mercati mobiliari e a proteggere i piccoli azionisti delle grandi imprese, la loro priorità essendo quella di proteggere il “lavoratore marginale”, piuttosto che il “capitalista marginale”. Con dati ricavati dall’analisi di 8 grandi paesi, dimostra che la variabile politica é più forte di quella giuridica nello spiegare la correlazione tra “socialdemocraticità” e “grado di separazione” tra proprietà e controllo.
Roe ci tiene a precisare che la sua non é una tesi normativa, che dal suo studio non si devono trarre indicazioni di politica economica. Ma per il lettore italiano é difficile mantenere un atteggiamento così distaccato. Di fronte alla perdita di competitività della nostra economia, alla crisi di alcune nostre grandi imprese, all’angusto destino del “nanismo industriale”, la public company appare la soluzione salvifica a un capitalismo senza capitali, contrapposta a quella delle scatole cinesi e dei gruppi piramidali.
E’ proprio il rapporto con la politica, come ho cercato di dimostra re nella mia prefazione, a fornire il vantaggio decisivo per il formarsi e mantenersi dei gruppi piramidali. Se si pone mente all’interesse, tutto italiano, dei grandi gruppi industriali al possesso dei giornali, il fatto che Berlusconi, imprenditore dei media, abbia conquistato il massimo possibile di potere politico appare come l’ipostasi del nostro sistema economico, non già una sua anomalia. La famosa frase dell’avvocato Agnelli – “se perde, perde lui solo, ma se vince abbiamo vinto tutti” – si presta ad essere letta in un modo non opportunisticamente cinico, ma realisticamente radicale. Quando non basta più essere governativi per vocazione, c’è qualcuno che diventa governo per votazione. La conquista del governo è il take-over di Rai da parte di Mediaset, il conflitto di interessi di Berlusconi non è emendabile, è la sua sostanza: perché è lui che “ha vinto per tutti gli altri”, anche per quelli che il potere politico si limitavano a portarlo in giro con il proprio elicottero. Berlusconi è la dimostrazione, parossistica, che politics matter.

Sulla opportunità che le grandi aziende famigliari evolvano verso modelli di governo societario radicalmente diversi da quelli in cui si sono formate, e sui modi per ottenerlo, si continua a discutere. Ma più importante è guardare ai fenomeni nuovi della nostra imprenditoria e preoccuparci delle condizioni che sappiamo offrire, quanto a mercati finanziari, concorrenza, servizi, sicurezza. La public company non è il toccasana, l’obbiettivo sono i mercati aperti: ad ostacolare le politiche che consentirebbero il loro affermarsi sono, sovente, proprio le forze che più mitizzano la public company. Ma non esiste una corporate governance ideale, e non è compito della politica indirizzarvi il paese. Possiamo andare verso modelli di liberal market economy: dopotutto abbiamo buone leggi di corporate governance, riprenderemo a privatizzare; abbiamo (ancora) una legge elettorale maggioritaria che sembra favorirla. Bisogna creare le istituzioni per il funzionamento dei mercati finanziari, beni comuni che gli individui non hanno interesse a realizzare singolarmente. Bisogna indurre un cambiamento culturale, di atteggiamento verso il rischio, di selezione per merito. E poi lasciare che il Paese evolva a partire dalla sua realtà, secondo i “geni” dei suoi cittadini. Questo è il compito della politica.

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