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Perchè serve il «contratto di ricollocazione»

Pubblicato il 24/03/2009 @ 18:03 in Giornali,Il Sole 24 Ore

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Di riforma del contratto di lavoro, più conosciuta nella poco appropriata abbreviazione “abolizione dell’articolo 18”, si parla da anni: molte sprezzanti ripulse, numerosi consensi illuminati, nessuna azione politica significativa. Ora sembra che si sia prossimi a un punto di svolta. E ciò per ragioni precise: la crisi finanziaria, diventata recessione economica, minaccia di diventare crisi sociale. Una disoccupazione a livelli a cui da tempo non eravamo più abituati, leva il sonno a governanti di tutto il mondo.

L’Italia affronta questa eventualità con una struttura del mercato del lavoro che vede da un lato lavoratori superprotetti, dall’altro lavoratori che protezione ne hanno poca o punto; che divide e contrappone i lavoratori, andando contro il principio per cui sono nati i sindacati; che ha contribuito ad accrescere il problema, incentivando le aziende a usare e abusare di forme contrattuali meno vincolanti. Il risultato é che oggi tutto il peso della flessibilità di cui il sistema ha bisogno è sopportato dalla metà dei lavoratori a cui il famoso articolo 18 non si applica.
Stupisce dunque che il Ministro Sacconi, sul Sole24Ore di mercoledì scorso, sostenga il primum vivere, e neghi l’opportunità, per questa stagione, di ogni riforma: sia dell’articolo 18, sia delle pensioni, sia dei sussidi ai disoccupati. Maurizio Sacconi é stato tra chi più si é battuto proprio su questi fronti. Tempi diversi, certo, ma non per questo richiedevano minore determinazione e coraggio, per cui è da escludere che si tratti di un suo ripensamento sul merito dei temi elencati. Quella a cui egli dà voce é piuttosto una valutazione di opportunità politica, e proprio su questa si esprimono perplessità. Infatti la chiusura su tutti i temi dell’agenda palesa un timore: aprire un conflitto e agitare gli animi, senza chiudere su nulla. Ma questo può valere per le pensioni, dove si toccano interessi e categorie che sono meno coinvolte dalla emergenza disoccupazione. Può valere per la riforma dei sussidi ai disoccupati, perché finirebbe per incentivare le tendenze all’assistenzialismo contro cui Sacconi conduce una sua sacrosanta quanto solitaria battaglia; e per aprire le dighe a richieste non compatibili con il bilancio dello Stato.

La riforma di cui si parla oggi non ha la vecchia pretesa della palingenesi generale istantanea: offre, su base volontaria, un’opzione di riforma a chi, aziende e sindacati, intende impegnarvisi, non chiede una lira allo Stato. Quindi non rischia di incuneare un altro elemento di divisione nella crisi sociale che il Ministro dovrà affrontare. Una diversa regolamentazione del licenziamento ovviamente non riduce il rischio di essere licenziato, ma, a differenza dei sussidi fine a se stessi, aumenta la possibilità di ritrovare un’occupazione di qualità. E ha un effetto anticiclico: non facilita il licenziamento di chi ha già un posto stabile, ma per chi non ce l’ha facilita l’accesso al lavoro “di serie A”, a tempo indeterminato, regolato secondo il migliore modello di protezione.
Da quando, nel 1997, si iniziò a parlare di riforma dell’articolo 18, il progetto si é andato molto affinando, tanto che é del tutto improprio continuare a chiamarlo con quel fatidico nome. Ora la riforma ha per obiettivo l’introduzione anche da noi della flexsecurity, il modello da tempo applicato con successo, soprattutto in paesi del nord Europa; non é quindi nominalismo. In sostanza (i dettagli si trovano nel portale della flexsecurity in www.pietroichino.it) il nuovo contratto di lavoro é per tutti a tempo indeterminato; in caso di licenziamento per motivi non disciplinari ‑ non più soggetto a controllo giudiziale – le imprese devono versare al lavoratore una cifra pari a una mensilità per ogni anno di anzianità di servizio. Il lavoratore licenziato sottoscrive un “contratto di ricollocazione” in virtù del quale percepisce – finché perdura lo stato di disoccupazione – un’indennità pari al 90% dell’ultima retribuzione per il primo anno, dell’80% per il secondo, del 70% per il terzo e del 60% per il quarto. La chiave di volta é il consorzio paritetico tra aziende e sindacati: esso eroga il trattamento di disoccupazione e un servizio di assistenza intensiva per la ricerca di una nuova occupazione, con corsi di formazione e riqualificazione e attività di outplacement, a cui il lavoratore è obbligato a partecipare secondo un orario settimanale analogo a quello di lavoro praticato in precedenza. Finanziariamente é alimentato dal Fondo sociale Europeo e dalle imprese che vi destinano quanto oggi versano all’INPS come contributo contro la disoccupazione e quant’altro necessario per il suo equilibrio. Questo é lo snodo cruciale: l’ente consortile deve essere efficiente, altrimenti i periodi di disoccupazione si allungano e il costo del sistema aumenta.
Il nuovo regime si applica a tutti i nuovi assunti nelle imprese interessate ad acquisire questa nuova flessibilità facendosi carico della sicurezza “alla scandinava”. I lavoratori già in forza da prima possono decidere a maggioranza di aderirvi; ipotesi non remota, dal momento che la “sicurezza alla scandinava” può risultare, in concreto, assai più appetibile della vecchia “sicurezza all’italiana” ancorata all’articolo 18.
Nell’ultimo anno questo progetto ha fatto, politicamente, molta strada. Lunga la lista di coloro che si sono pronunciati a suo favore: da Emma Marcegalia al segretario della UIL Luigi Angeletti, da Corrado Passera al numero due della CISL Giorgio Santini; dalle associazioni dei direttori personale ai giovani PD lombardi, da Mario Monti a Sergio Chiamparino, da Giuliano Cazzola a Enrico Morando e Giorgio Tonini. Ci sono tutte le condizioni per una iniziativa bi-partisan che consenta al progetto di camminare velocemente, come i tempi di crisi richiedono.

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