Perché la mia storia riformista non s’attaglia alla tecnocrazia di Monti

gennaio 11, 2013


Pubblicato In: Giornali, Il Foglio


Domani a Orvieto avrà luogo una cerimonia funebre: quella per LibertàEguale, l’associazione nata dall’incontro tra politici che idee liberali avevano maturato in un’intensa militanza nei partiti della sinistra, il Pci e il Psi, e persone entrate in politica dopo il ’94, prima con Alleanza democratica poi con l’Ulivo. Per il nostro (relativo) successo ci sono state ragioni contingenti: nel ’94, l’idea di portare gente e idee agli ex comunisti che erano stati “sotto vuoto” per cinquant’anni. Ragioni metapolitiche: parte della borghesia italiana non se la sarebbe mai sentita di votare per Berlusconi, ma voleva che ci fosse qualcuno a garantire di persona per l’ex Pci.

Ragioni obiettive: il pregiudizio diffuso, in Italia e fuori, che gli ex Pci non potessero andare al governo. Nel ricordare quegli anni, penso soprattutto a quanti entrarono in politica con il bipolarismo nel ’94. Riuscii a convincere D’Alema, e con un paio di “prestiti” mettemmo insieme il gruppo Sinistra democratica al Senato.
Con l’Ulivo avvenne l’incontro formale con quello che era rimasto dell’ala migliorista del Pci. Noi eravamo diversi, lo si sentiva perfino nel lessico: diversi, non estranei. Non siamo mai stati gli inquilini della sinistra, non siamo quelli dei taxi, se non nel senso di una simbolica (e mai avvenuta) liberalizzazione.
Ci siamo sempre sentiti parte di un disegno politico, a cui si potevano applicare le categorie di destra e sinistra, nomi antichi, ma nomi del nostro discorso comune politico, come quando si dice pane al pane e vino al vino. E anche quando nessuno avrebbe potuto obbiettare se fossimo entrati in proposte politiche come la lista Dini, o l’Asinello di Prodi, siamo restati dove eravamo. Quando, al congresso di Pesaro, abbiamo presentato la nostra mozione, c’erano le nostre tesi eretiche: la mia era la separazione delle carriere in magistratura. Siamo stati il Partito d’azione della Seconda Repubblica: un’eiaculazione precoce ma non infeconda.
Eravamo ovviamente tutti contro Berlusconi, ma per ragioni e con argomenti ben diversi da quelli dell’antiberlusconismo giudiziario, o virtuista ed etico. Anche la “diversità” la consideravamo una storia chiusa senza rimpianti. Alle passate assemblee di LibertàEguale veniva distribuito il Riformista: il 30 marzo 2012 ha chiuso. Una storia finita anche quella, ma una storia che andrà scritta: perché il Riformista è stato un grande spazio di libertà, l’abbiamo usato e vi abbiamo contribuito.
Oggi neanche Berlusconi dice che Bersani non può governare perché “comunista”.
A sinistra si cercano competenze, e credibilità, mirate, ma la domanda di foglie di fico in quanto tali è finita, e non solo perché è caduto il veto anti Pci: è diversa la fase storica, e all’entusiasmo per il mercato che si attribuiva a Blair e Clinton, si è sostituito il parasocialismo di Obama e il neolaburismo di Miliband. Bersani ne trae le conseguenze, e segue un tragitto logico. Non è lui che ha fatto cadere la prospettiva di un partito a vocazione maggioritaria. Alla fine va riconosciuto che l’area politica di cui LibertàEguale è la componente più visibile, in vent’anni di Parlamento non è riuscita a produrre un leader. Quella di Renzi, che abbiamo votato, ma che è “nostro” solo in senso lato, sarebbe stata forse una storia diversa, se, ed è un grosso se, da lì fosse partita una storia diversa della complessiva offerta politica. Così non è stato, quella finestra si è chiusa.
La necessità per il paese di portare avanti idee liberali è più acuta che mai. Noi, per dare il nostro contributo, abbiamo praticato l’entrismo. Ma l’entrismo è possibile solo se i contrasti sono sui contenuti della politica, non sui principi del fare politica. E questo invece è quello che a mio avviso si verifica con l’agenda Monti.
L’idea di Monti, professata fin da quando scriveva sul Corriere, è che le preferenze politiche dovrebbero collocarsi sull’asse della disponibilità a fare riforme e non sull’asse destra-sinistra. Questo è solo un modo diverso di esprimere la vocazione tecnocratica, per cui le riforme avrebbero ragione in sé di essere fatte e non ragioni che derivano da una visione complessiva della società, quale si costruisce storicamente.
La repubblica degli ottimati è una prospettiva inaccettabile sia per liberisti sia per socialisti. Siamo tutti europeisti: ma Monti è appiattito su un progetto di nation building europeo, che vorrebbe sostituire un patriottismo di Strasburgo”, al rapporto che il cittadino, perfino di quello che per delusione o dispetto non vota, ha con le proprie istituzioni nazionali; e alla lingua del nostro discorso politico un esperanto costruito come media (a doppia ponderazione) delle lingue politiche di 27 nazioni.
Una tragica contraddizione: non sarà con gli Eurobond che usciremo dalla crisi, ma solo mobilitando le nostre risorse individuali e le nostre identità.
Monti si rivolge alla parte sbagliata del paese. C’è un compito, dare una prospettiva politica nuova a quel 40 per cento di italiani che ha votato Berlusconi. L’errore dell’antiberlusconismo quale abbiamo finora conosciuto è stato di non distinguere tra Berlusconi e chi lo eleggeva, di disprezzare questi per demonizzare quello.
L’antiberlusconismo ha contagiato Monti che non ha capito che quella era l’operazione che avrebbe stabilizzato e reso “europeo” il panorama politico italiano. Invece di questo disegno, Monti ha preferito impegnarsi in un gioco che è insieme rigido nelle apparenze e ambiguo nella sostanza, che invece di imporsi come visione di assetto politico del paese, è preoccupato di assemblare sufficienti consensi per entrare nel giochi politici che si potrebbero aprire dopo le elezioni.
LibertàEguale è finita. Ognuno è libero di fare le proprie scelte, e ognuno è libero di giudicare quelle degli altri. Ma sarebbe negare la nostra identità, perdere ciò che abbiamo fatto in questi anni, pensare che quello dell’agenda Monti possa essere il terreno in cui trapiantare le nostre idee e le nostre passioni.

La risposta di Enrico Morando del 12 Gennaio 2013

L’Agenda Monti deve essere anche quella Pd, e i riformisti servono ancora


Caro Franco, ti basta identificare LibertàEguale con l’Agenda Monti, questa con l’omonima lista, e quest’ultima con la Repubblica degli ottimati, espressione della vocazione tecnocratica, e il gioco è fatto: quello che oggi si tiene a Orvieto, per discutere del contrasto tra riformisti e populisti e provare ad individuare la politica e le politiche che possono far prevalere i primi sui secondi, è il funerale di LibertàEguale.
Un po’ per scopo sociale conseguito (“non è Bersani che ha fatto cadere la prospettiva di un partito a vocazione maggioritaria”; e poi “siamo tutti europeisti”); molto per abbandono dei “principi del fare politica” (non si fa “entrismo” verso il partito dei “tecnocrati”).
E invece no. Che LibertàEguale abbia svolto una funzione essenziale nella battaglia politica e culturale per far nascere, anche in Italia, un partito riformista a vocazione maggioritaria è certamente vero, e ci venne emblematicamente riconosciuto dal “fondatore” del Pd Veltroni, che proprio alla nostra Assemblea di Orvieto annunciò di aver compiuto una scelta politica “costituente”, capace di fare uscire i riformisti dal calvario di decenni di pas d’ennemis a gauche. Ricordi? “Mi sono chiuso una porta dietro le spalle…”. Non fu del tutto conseguente (Di Pietro). Ma dopo sei anni di dura battaglia di ultra minoranza (il 4 per cento raccolto dalla mozione Morando a Pesaro, nel congresso dei Ds del 2001), l’ultramaggioranza del centrosinistra italiano veniva a condividere la proposta di riorganizzazione del nostro campo attorno alla funzione centrale di un grande e unitario soggetto politico. Così inducendo anche l’altro campo, per elementari ragioni di competizione, a ristrutturarsi, dando vita al Pdl. Per questo, non mi sono mai pensato e sentito una “foglia di fico”: semmai, il piccolissimo seme che ambisce a generare qualcosa di infinitamente più grande di lui.
Della serie: non succede, ma se succede… Veniamo ora all’Agenda Monti. Non LibertàEguale come tale, ma io come senatore e dirigente del Pd, ho sostenuto con tranquilla determinazione che dovesse essere il Pd a garantire agli italiani e ai nostri partner europei e globali che l’Italia – col governo Bersani (o Renzi: eravamo a luglio, e le Primarie non si erano ancora tenute) – avrebbe tenuto fede agli accordi sottoscritti (Six pack e Fiscal compact), avrebbe realizzato gli impegni presi (pareggio strutturale di Bilancio nel 2013), e non avrebbe compiuto passi indietro rispetto alle riforme realizzate nell’ultimo anno (pensioni e lavoro). L’Agenda Monti è stata ed è tutto questo. Così come è stata ed è quell’insieme di atti, proposte e atteggiamenti che ci ha fatto recuperare credito in Europa, dove siamo riusciti a incunearci – con garbo e determinazione, senza strappi e cedimenti – tra la Francia di Hollande e la Germania di Merkel, ora cooperando con il primo per smuovere la seconda (l’Unione bancaria e i primi esperimenti di project bond), ora viceversa (la ratifica rapida del Fiscal compact e l’avvio del lavoro sulla “cessione di sovranità” in tema di decisione di bilancio nazionale). Questa è l’Agenda Monti, che continuo a ritenere che il Pd farebbe bene a fare propria. E confido che, al di là dei toni e degli accenti, lo farà.
La lista Monti – rispetto a cui fare un improbabile “entrismo” – è tutt’altra cosa. Ovviamente, non è cosa di LibertàEguale. Che da liste ed elezioni – essendo partecipata da liberaldemocratici e liberalsocialisti di diversa o nessuna appartenenza politica – si è sempre tenuta a debita distanza (Cafagna docet). Ma, se permetti, non è nemmeno cosa mia. A meno che anche tu pensi che invitare alla nostra Assemblea Monti, un anno e più fa, a parlare della minaccia populista – e mantenere questo invito anche a campagna elettorale incombente – sia segno di subalternità alla sua odierna iniziativa politico-elettorale. Tu quoque? Quanto alla possibile funzione strategica della lista Monti – “dare una prospettiva politica nuova a quel 40 per cento di italiani che ha votato Berlusconi” – inclino a ritenere che tu abbia ragione. Per questo, non come presidente di LibertàEguale, ma come dirigente politico, non ho condiviso la scelta di Pietro Ichino, al quale confermo enorme stima e piena adesione al progetto di flexicurity che porta il suo nome. Mentre ho condiviso le motivazioni politiche con cui un altro esponente di LibertàEguale, Stefano Ceccanti, ha motivato ieri (La Stampa) la non accettazione dell’offerta che gli era stata rivolta.
Ma vorrei invitarti a non trascurare troppo, in questo contesto, l’oggetto specifico dell’Assemblea di oggi: riformismo versus populismo. La relazione di Antonio Funiciello chiarirà i termini del problema. Io qui mi limito a sollevare un’unica questione: ritieni o no che costituisca un serio rischio, per il futuro dell’Italia e dell’Europa, la possibilità che le tre Regioni del nord – Piemonte, Lombardia e Veneto – possano essere “unificate”, sotto le insegne di tre presidenti leghisti, in una macroregione che metta sotto ricatto da rivolta fiscale il nostro paese e l’Unione? Oppure “siamo tutti europeisti” e il problema non esiste?
E ti sembra sensato o no che LibertàEguale, dopo aver mostrato qualche virtù di presbiopia nell’individuare il rischio, provi a discutere della politica (la cooperazione tra Pd di Bersani e lista Monti) e delle politiche che possono effettivamente scongiurarlo?
Do per scontato che organizzare una simile discussione non equivalga a organizzare una festa. Ma l’unico funerale che si cercherà di preparare oggi a Orvieto, sarà quello, difficile e lontano nel tempo, del populismo. La nostra solita megalomania…

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