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Perché la banda ultra larga non passa dallo scorporo della rete secondaria di Tim

Pubblicato il 25/03/2021 @ 10:10 in Giornali,Il Sole 24 Ore


Il ruolo dello Stato e il perimetro dei suoi interventi dovranno essere valutati con attenzione». È Mario Draghi a dirlo, il 17 febbraio, nel discorso in cui chiede la fiducia al Senato. E a quanti credono che il mercato assicuri prosperità ai Paesi e libertà ai loro cittadini si è allargato il cuore: per un governo che «nasce nel solco dell’appartenenza all’Unione Europea», il valutare «con attenzione» può solo voler dire, se non ridurre, almeno non aumentare il «perimetro dei suoi interventi» che già fa dell’Italia un’anomalia in Europa. E invece sull’agenda dell’esecutivo incombono due problemi di tale portata che, se dovessero portare a ulteriori ampliamenti dei perimetro di intervento dello Stato farebbero dell’anomalia un’alterità. Si tratta della rete a banda ultra larga, e delle autostrade. Parafrasando Indro Montanelli, in questo articolo si parla solo del primo.

La rete in questione è quella secondaria, che va dalle centrali locali alle unità immobiliari, abitazioni o uffici. Questa rete è di proprietà dell’ex monopolista pubblico. Telecom Italia è diventata Tim, la proprietà è passata più volte di mano, ma tutti gli azionisti di maggioranza hanno respinto la richiesta di venderla a una società delle reti controllata dalla Cassa depositi e prestiti (Cdp), il sogno di Franco Bassanini, ex presidente di Cdp e attuale presidente di Open Fiber. Con ragione, perché senza la sua rete Tim non esisterebbe più come grande impresa, sarebbe ridotta a una rete commerciale, oltretutto con ingenti debiti, per i quali la rete fornisce l’indispensabile collateral.

Lo sa bene il ministro per l’Innovazione tecnologica e la transizione digitale Vittorio Colao, che è stato a lungo chief executive officer di Vodafone. Gli altri ex monopolisti, o sono tutti privati, come in Spagna, Paesi Bassi, Regno Unito, o hanno lo Stato come azionista rilevante ma non dominante, come in Germania e Francia. Separare societariamente la rete secondaria, affidandola al controllo pubblico l’hanno fatto solo Australia e Nuova Zelanda, con risultati che sconsigliano dal riprovarci. In Europa nessuno l’ha fatto, nessuno lo vuole fare, neppure se ne discute in via ipotetica. Oggi tra Tim e gli altri operatori i 3o Mbit/sec sono assicurati in tecnologie cablate (solo fibra o fibra – rame) al 92% delle famiglie. Per velocità fino a i Gbit/sec in tecnologia Ftth (Fiber to the home), la società FiberCop – costituta da Tim, Fastweb e il fondo americano Kkr – prevede la copertura al 56% entro il 2025.

Per raggiungere anche le aree impropriamente dette a fallimento di mercato, il governo Renzi incaricò Enel di fondare Open Fiber, una società oggi 50/5o con Cdp, e finanziò l’iniziativa della fibra ottica nelle aree bianche con tre bandi pubblici. Open Fiber, vinte tutte le gare pubbliche per 7.439comuni con l’impegno di realizzare in tre anni la copertura, ora chiede una proroga di ben tre anni, pretendendo, di estendere così ad almeno sei anni una condizione di monopolio di fatto su gran parte del Paese. Secondo il documento del concedente Infratel (Mise) del 28 Febbraio 2021, i comuni con rete fissa terminata sono 1.317, solo il 18% dell’impegno a gara. Open Fiber sta inoltre • cambiando la tecnologia di connessione, trasferendo circa 1.300 comuni in origine previsti in Ftth su connessioni wireless meno costose: invece di scavare cavidotti, basta un’antenna per coprire più comuni. A prezzo però di peggiori prestazioni e minor numero di clienti davvero servibili. Infine è la sostenibilità del modello economico di Open Fiber che sembra andare in crisi: i dati di Infratel lo confermano giacché, mentre Open Fiber ha raggiunto 1,1 milioni di unità immobiliari in Ftth, gli utenti che pagano sono appena 21.446. Mentre invece, come dichiarato alla trasmissione televisiva Report del 20 maggio 2020, «l’azienda in gara aveva stimato una domanda significativa di banda ultra larga in queste aree del Paese».

Tra ritardi, modifica di tecnologia, mancanza di utenti, è lo stesso concetto di rete unica wholesaleonly a perdere significato. La rete in Italia è sostanzialmente la rete Tim, che Tim continua gradualmente ad ammodernare, come fanno tutti gli operatori storici in Europa; l’evitare doppi investimenti appare un pretesto per ristatalizzare. D’altronde, è davvero bizzarro che oggi si voglia scorporare la rete Tim col pretesto della duplicazione degli investimenti nelle aree più densamente popolate, quelle “nere”, quando la strategia di copertura sempre adottata faceva perno proprio sulla presenza di una pluralità di operatori infrastrutturali. Tanto più che non c’è alcuna evidenza che sia il presunto eccesso di offerta nelle aree nere a causare, direttamente o indirettamente, l’altrettanto presunta inadeguatezza dell’offerta nelle aree bianche.

La rete è dunque sostanzialmente la rete Tim: il completamento della sua conversione in rete ottica è già nei piani, lasciargliene la proprietà non è una concessione. Tim ha sempre sostenuto di essere pronta a vendere quote della nuova società della rete, a condizione però di mantenerne il controllo proprietario. In tal senso Tim è già stata indotta dal precedente governo a firmare un generoso memorandum d’intesa con Cdp, nell’interesse di Open Fiber. Non solo: Tim ha già dettagliato e sottoposto all’approvazione del Garante un piano di co-investimento che consente a tutti gli operatori di collaborare agli investimenti, secondo la logica prevista dal Codice europeo delle comunicazioni. Una strada, questa, che consente di raggiungere l’obiettivo politico di ampliare la copertura della banda ultra larga senza necessariamente sconvolgere gli assetti proprietari e l’organizzazione industriale del settore.

Se ora il governo italiano, a differenza di tutti gli altri Paesi d’Europa, vuole possedere la rete, la strada è una sola: lanci un’offerta pubblica di acquisto, e si sostituisca nel controllo dell’azienda all’azionista Vivendi che ne ha acquistato la maggioranza. Intendiamoci: è una provocazione, non un suggerimento. Lo Stato italiano se la dovrebbe vedere con l’Europa se lo facesse e sarebbe comunque, a ogni evidenza, un’iniziativa senza senso. E anche senza motivo: risolvere i problemi di Open Fiber fondendola con la rete secondaria di Tim è questione di valutazione degli apporti; gli incentivi per accelerare la copertura in banda ultra larga costano infinitamente di meno. Chi ha creato il problema Open Fiber adesso lo risolva.


Open fiber e gli sforzi per una rete capillare

Risposta di Open Fiber a Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 26 marzo 2021

F ranco Debenedetti nel commento pubblicato ieri su Il Sole 24 Ore, attinge nuovamente al proprio abituale repertorio di dichiarazioni offensive su Open Fiber (OF), che si trova così, per l’ennesima volta, nella posizione di dover rettificare imprecisioni e valutazioni lesive della propria reputazione. Debenedetti continua ad ignorare che Open Fiber è oggi – di gran lunga – il principale fornitore di infrastruttura in fibra ottica in modalità FTTH (dalle centrali alle abitazioni), avendo raggiunto poco meno di 11,5 milioni di Unità Immobiliari (UI) in Italia, nelle aree di mercato e in quelle cosiddette bianche. Un dato che mette OF tra i primi fornitori di infrastruttura evoluta in Europa (al terzo posto per l’esattezza). Grazie al lavoro di OF, l’Italia sta recuperando terreno nei ranking internazionali in termini assoluti (si veda DESI 202o) mentre è ai vertici delle classifiche in termini di velocità di crescita (rapporto Idate 2020) nei cosiddetti Very High Capacity Network (VHCN), quelli a cui ormai tutti guardano quando si parla di digitalizzazione delle economie e futuro dei Paesi. Sul sito di Agcom Debenedetti può facilmente vedere come la stragrande maggioranza di linee attive su infrastruttura FTTH sia su rete Open Fiber, mentre TIM è al quarto posto in graduatoria, molto distanziata dalle altre maggiori Telco. Debenedetti continua a evocare la “crisi” del modello wholesale only, ignorando l’attenzione e l’approfondita analisi che i policy maker, gli operatori, i fondi infrastrutturali, le stesse 14banche italiane e internazionali finanziatrici di Open Fiber hanno dedicato all’azienda, al suo modello e alle sue performance. Mentre tutti ragionano sul mix di tecnologie (fisse e mobili, tra cui FWA e 5G) con cui colmare il più rapidamente possibile un digital divide – di cui sembra difficile incolpare OF, che opera sul terreno da soli 4 anni – Debenedetti riscopre sorprendentemente quanto previsto dalle gare e dagli atti di concessione di Infratel, ovvero che una quota di UI sia raggiunta in FWA. Siamo dei convinti sostenitori dell’assoluta necessità per il Paese di disporre di una vasta, capillare e resiliente rete in fibra FTTH ma, sì, siamo colpevoli di voler raggiungere tutti – ma proprio tutti – usando anche l’FWA. E se vogliamo confrontarci apertamente possiamo anche analizzare i dati del take up, che – per quanto ancora oggettivamente esigui nelle aree bianche – mostrano trend di assoluto interesse quanto a percentuali di crescita, se valutate in una normale prospettiva temporale. Ritardi ce ne sono, e abbiamo più volte affrontato l’argomento nella sua reale e ormai ben compresa complessità (burocrazia, capacità produttiva del sistema, architettura delle gare, codice appalti, limiti di Open Fiber inclusi), ma non possiamo anche non ricordare gli effetti dei comportamenti anticompetitivi di TIM che sono già valsi all’incumbent una sanzione (scontata) di ii6 milioni da parte di AGCM e richieste di risarcimento danni da parte di vari operatori che sfiorano i 3 miliardi di euro.


TLC le troppe verità sulla copertura della rete pubblica

Risposta di Tim a Open Fiber – Il Sole 24 Ore, 31 marzo 2021

Caro Direttore, siamo costretti ad intervenire a valle della replica di Open Fiber all'articolo del prof. Debenedetti, pubblicata venerdì scorso sul suo giornale. Non è la prima volta che Open Fiber, quando è in difficoltà, attacca pubblicamente TIM (i cui titoli pure risentono delle informazioni date al pubblico) soprattutto quando si tratta di dare conto delle discrasie nel calendario della costruzione della rete pubblica tra quanto richiesto a Open Fiber e quanto da questa realizzato. Ciò che lascia sbalorditi è il tentativo di dare un'informazione non corretta sui dati di copertura, giustificando i ritardi con motivazioni, come la difficolta di ottenere autorizzazioni sul territorio o il codice appalti, che in verità fanno parte del normale business e che tutti gli altri operatori affrontano e superano nella quotidianità. Problematiche che peraltro la stessa Open Fiber non ritiene di avere nelle "aree nere". Riguardo al tema dell'effettiva copertura, Open Fiber continua a fornire numeri che divergono da quelli resi pubblici da Infratel. Questo perché, probabilmente, il concetto di copertura FITH utilizzato da Open Fiber è diverso dall'accezione tecnica universalmente riconosciuta. Desideriamo infatti ricordare che FTTH significa Fiber to the Home, ovvero un'architettura di rete che prevede che la fibra arrivi "effettivamente" alla casa del cliente finale. Sembrerebbe ovvio, ma Open Fiber, come illustrato in audizioni parlamentari e in alcuni approfondimenti giornalistici, considera invece tale una copertura che arriva ad alcune decine di metri dalle unità immobiliari. Senza voler entrare nel merito delle conseguenze causate da questo operato a chi vive nelle "aree bianche" e alla digitalizzazione del Paese, prevista in tempi ben determinati all'interno del bando di gara e completamente disattesi, ci preme in questa sede ricordare che, alla luce della situazione e dei gravi ritardi che si sono venuti a creare, TIM ha deciso di investire per coprire il 75 delle "aree bianche" con tecnologia ultrabroadband. A seguito di quanto fin qui esposto, pare evidente l'interesse del pubblico a un'informazione piena e corretta sulla reale copertura in FTTH (ovvero con la fibra che arriva effettivamente fino a dentro le case degli italiani) realizzata rispettivamente da TlM e da Open Fiber e proponiamo al SoIe 24 Ore di fare un approfondimento giornalistico in merito. Lo scorso agosto, a fronte di altri numeri al di fuori della realtà, l'ad Luigi Gubitosi aveva invitato il Presidente di Open Fiber a effettuare una verifica sui numeri effettivi e proponendo come stimolo una donazione a favore di un'organizzazione benefica da parte di chi non avesse dato numeri veritieri. Siamo pronti a rinnovare questa richiesta.

Nicola CAPODANNO – Responsabile Press 0ffIce Tim

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