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Perchè andare a votare

Pubblicato il 30/05/1995 @ 16:14 in Varie


Le elezioni amministrative hanno avuto un valore politico, esaltato o sminuito a seconda delle aspettative o dei timori prima del voto, della soddisfazione o delle delusioni dopo la chiusura delle urne. Significato politico di primaria importanza avranno i referendum dove su questioni, alcune importanti (le TV) altre meno (gli orari dei negozi), si deciderà della sorte di Berlusconi e di Forza Italia, un movimento che appena un anno fa aveva rivolu­zionato il panorama politico italiano.

La politica, sospesa ancora una volta dal ricorso a un governo “tecnico”, si prende la sua rivincita, esaltando il valore politico di fatti che in sé avrebbero valenza diversa. Sono fatti rivelatori di un’anomalia su cui conviene riflettere: da molti anni le principali decisioni politiche, quelle che hanno maggior peso per il futuro del nostro paese, vengono prese o da istituzioni non elettive o da governi che non sono diretta espressione della volontà popolare. Così è stato per il rientro dall’inflazione, compi­to che fu demandato al controllo del cambio operato da Bankitalia; così è stato per l’ab­bandono dello SME, sotto il governo Amato; così per gli accordi sul costo del lavoro (Amato e Ciampi), la cui importanza per consentire una ripresa non inflazionistica non sarà mai abbastanza ricordata; così per le pensioni, prima con Amato e poi con Dini. Non si intende dare giudizio di merito, essendo evidente che quelle citate sono state decisioni sagge, che hanno giovato al paese; il giudizio è sul metodo, perché non è normale che una democrazia elettiva si dimostri capace di prendere decisioni importanti per il proprio futuro solo fuori da sedi politiche, o da parte di governi “tecnici”. Già la parola “tecnico” è ingannevole: nessuno vorrà sostenere che la riforma delle pensioni, che pre­suppone un così vasto accordo sociale, non sia un fatto eminentemente poli­tico. Ma il governo politico di Berlusconi non è stato capace di realizzarla, e solo il ricorso alla finzione di un accordo tecnico (negoziato fuori dal conte­sto istituzionale) ha consentito di condurla in porto.

Così per i referendum: con tutto il tempo che c’è stato, con un sì o un no a quesiti formulati in modo astruso decideremo degli assetti di uno dei sistemi più importanti per la vita democratica e decisivi per il nostro futuro di nazione industriale. La politica si riprende la sua rivincita in modi anche inaspettati: così l’intervento del tecnico Mancuso, del governo tecnico Dini, apre un problema politico non piccolo. La sospensione della politica può avere dei prezzi (fino a quan­do una democrazia può sopportarla?), certamente ha dei limiti: perché la politica non è il lavoro (talvolta lo sterile gioco) che si fa in Parlamento, ma è aggregazione del consenso dei cittadini su obiettivi comuni e progetti chiari.

Incombono problemi gravi: il rientro del debito, la riforma della pubblica amministrazione, la stipula di un nuovo patto di solidarietà sociale, un mercato che dia respiro alle iniziative di individui e imprese, la ripresa di investimenti in capitale fisso ed in capitale umano. Non sarà possibile porvi mano senza un larghissimo consenso, senza la politica nel suo senso più nobile.

Per questo è necessario andare a votare: sperando che dalle urne esca una maggioranza e quindi un governo che con serietà, senza risse interne, non mosso da interessi da proteggere o intento a vendette da consumare, affronti con tanta responsabilità (e un pizzico di fantasia) i problemi del paese.

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