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Per chi suona la musica colta

Pubblicato il 08/01/2011 @ 10:48 in Articoli Correlati


di Alex Ross

Le note senza pubblico

Benché sia trascorso ormai un secolo da quando Alban Berg e Anton Webern riversarono sul mondo le loro aspre sonorità, i classici moderni sono considerati tuttora indigesti da buona parte del pubblico dei concerti. All’ ultima stagione della New York Philharmonic, al momento dell’ esecuzione dei Tre pezzi per orchestra di Alban Berg decine di persone hanno lasciato la sala; e un gruppo altrettanto nutrito ha disertato Carnegie Hall quando la Filarmonica di Vienna ha affrontato le Variazioni per orchestra di Schoenberg.

A volte basta anche il più blando dei regimi di musiche del XX secolo per suscitare uno stridor di denti chiaramente udibile. Persino una composizione che ha ben poco di atonale come la Serenata per tenore, corno e archi di Benjamin Britten, ascoltata al Lincoln Center nel 2009, non ha incontrato il gusto di un signore seduto dietro di me. Il quale, sentendo una voce gridare «bravo!» dall’ altra parte della sala, ha borbottato: «Scommetterei che è una posa». Ho resistito a stento alla tentazione di sbattergli contro la partitura tascabile che avevo in mano. Alcuni comportamenti di questo tipo si possono mettere sul conto della ben nota mancanza di buone maniere di alcuni sponsor di New York. Ma il problemaè molto diffuso, come può confermare qualunque organizzatore di concerti amante del repertorio del XX secolo. Tra il pubblico di Last Night of the Proms del 1995 c’ è chi si dice ancora traumatizzato dall’ estrema violenza di composizioni come Panic di Harrison Birtwistle. Per decenni i critici, gli storici e persino gli specialisti di neuroscienze si sono sforzati di comprendere come mai la cosiddetta musica moderna lasci perplesso l’ ascoltatore medio. Dopo tutto, in altri campi artisti non meno avventurosi hanno ricevuto una ben diversa accoglienza. Il dipinto più quotato della storia è un vorticoso quadro astratto, il N° 5 di Jackson Pollock, venduto nel 2006 per 140 miliardi di dollari. I tycoon e gli emiri si contendono gli architetti d’ avanguardia; e ogni anno, in tutto il mondo il 16 giugno si organizzano drinking parties ispirati all’ Ulisse di James Joyce. Un tempo questi intoccabili della cultura erano trattati da ciarlatani, o da venditori dei «vestiti nuovi dell’ imperatore», per citare una metafora divenuta ormai un luogo comune tra i musicofili dissenzienti. La troviamo fin dal 1913 in un ediDtoriale del New York Times, che faceva strame di Marcel Duchampe del suo Nudo che scende le scale; e nel 1946 è ripresa da un commentatore che sostiene di non vedere la differenza tra un Picasso e il disegno di un bambino. Il poema di T.S. Eliot Canto d’ amore di J. Alfred Prufrock è stato citato per le sue «incoerenti banalità». E dire che oggi, se durante una cena qualcuno osasse dir male di Pollock, si attirerebbe le occhiate perplesse dei commensali; mentre non è detto che un analogo commento su John Cage venga accolto da reazioni polemiche. I tentativi di spiegare la perdurante resistenza al modernismo in musica sono stati tanti da far pensare che nessuno di essi abbia colto nel segno. Una teoria sostiene che la preferenza per la tonalità semplice sia insita nel cervello umano; ma i test per verificare questa tesi hanno prodotto risultati ambigui. Alcuni studi rilevano che nei primi anni di vita prevale la preferenza per gli intervalli consonanti; è anche vero però che i bambini vengono abituati fin dalla nascita all’ ascolto di musica tonale, e sono quindi condizionati ad accettarla come «naturale». Quanto alle arti visive, le ricerche dimostrano che i bambini preferiscono le immagini figurative a quelle astratte; ma questa propensione è stata evidentemente superata dai 327.000 visitatori che nel 2008-2009 sono accorsi alla Tate Modern per vedere le lugubri tele dell’ ultimo periodo di Mark Rothko. E lo stesso potrebbe accadere per la musica. Si è anche tentata una spiegazione sociologica: chi assiste a un concertoè praticamente bloccato nella sua poltrona per un tempo prestabilito, e perciò tendenzialmente restio a compiere uno sforzo inusitato; mentre i visitatori di una mostra d’ arte hanno la possibilità di muoversi liberamente, e quindi di assimilare immagini anche inconsuete secondo i propri tempi e ritmi. Ma se fossero le modalità della presentazione a condizionare la reazione, anche il pubblico dei cinema, dei teatri e degli spettacoli di danza dovrebbe opporre la stessa resistenza alle idee innovative. La relativa popolarità di autori quali George Balanchine, Samuel Beckett o Jean-Luc Godard induce poi a considerazioni di tutt’ altro genere. Per quanto attiene in particolare al cinema, si è colpiti dal larghissimo uso di quelle stesse dissonanze che il pubblico dei concerti tende spesso a considerare alienanti. Alla fine degli anni 1960 il film di Stanley Kubrick 2001: Odissea nello spazio ha elettrizzato milioni di spettatori, grazie anche all’ allucinata colonna sonora di György Ligeti. E il recente Shutter Island di Martin Scorsese, con musiche di Cage, Morton Feldman, Giacinto Scelsi e dello stesso Ligeti, ha realizzato un record di incassi. La partitura composta da Michael Giacchino per la serie televisiva Lost è una vera enciclopedia di tecniche d’ avanguardia. Se quindi l’ orecchio umano fosse istintivamente ostile alle dissonanze, queste e mille altre produzioni hollywoodiane dovrebbero essere votate all’ insuccesso. Il mio sospetto è che il problema di fondo non sia né fisiologico, né sociologico; più probabilmente, i compositori moderni sono vittime di una persistente indifferenza intimamente legata a un rapporto di idolatria per la musica classica legata al passato. Accadeva anche prima del 1900 che il pubblico frequentasse i concerti col desiderio di farsi massaggiare dalle piacevoli sonorità dei giorni andati. («Le nuove composizioni non hanno successo a Lipsia», disse un critico nel 1859, ad una prima di Brahms). Il mondo della musica si è focalizzato sulla lucidatura maniacale di una vetrina di capolavori. Al tempo in cui Schoenberg, Stravinsky e altri musicisti coevi inauguravano un nuovo vocabolario di accordi e di ritmi, contro di loro i giochi erano fatti (…). Sembra impossibile – a meno di ricorrere a misure drastiche – colmare lo svantaggio di appartenere ancora al mondo dei vivi. D’ altra parte, musei e gallerie d’ arte hanno adottato un atteggiamento nettamente diverso. In America importanti istituzioni hanno svolto un’ azione di propaganda per l’ arte moderna. Facoltosi mecenati hanno sponsorizzato alcune delle novità più radicali; i mercanti d’ arte hanno fatto un uso massiccio della pubblicità, e i critici hanno circondato di un alone romantico artisti quali Pollock e altri, rappresentandoli come eroi solitari. Così si è fatta strada l’ idea che i musei possano essere concepiti come luoghi di avventure intellettuali. In occasione di una recente visita al MoMa sono stato colpito da una scritta all’ ingresso, che recitava: «Essere parte di qualcosa di brillante, elettrizzante, radicale, curioso, nitido, dinamico… turbolento, visionario, drammatico, attuale, provocatorio, impavido…». Oggi nessuna orchestra importante potrebbe o vorrebbe descriversi in termini analoghi. Ma qualche organizzazione si sta muovendo in questo senso (…). I giovani accorrono a migliaia alle serate MusicNOW offerte dalla Chicago Symphony, che accortamente ha incluso nel biglietto uno spuntino a base di pizza e birra. A Londra una folla elettrizzata ha preso d’ assalto il Southbank Centre o The Barbican per le serate di Edgard Varèse, Iannis Xenakis, Luigi Nonoo Karlheinz Stockhausen. Ma anche a New York la situazione nonè poi disperata. Alan Gilbert, che dalla scorsa stagione dirige la New York Philharmonic’ s, ha avuto uno straordinario successo con proposte indigeste come Le Grand Macabre di Ligeti, Amériques di Varèse e ancora, all’ inizio della stagione, Kraft di Magnus Lindberg. Gli osservatori di lungo corso non credevano ai loro occhi davanti agli applausi tributati dal pubblico degli abbonati a questo brano di Lindberg, praticamente atonale dall’ inizio alla fine, che prevede l’ uso di parti di automobili dismesse come percussioni. A fare la differenza è stata la capacità di Gilbert di prendere per mano il pubblico per guidarlo in nuovi territori: nel corso di una mini-conferenza non priva di autoironia, ha illustrato la struttura del brano ponendo in luce i suoi punti salienti, e ha saputo dare al pubblico la sensazione che chi avesse lasciato la sala si sarebbe perso qualcosa di irripetibile. Il gusto musicale è sempre acquisito; e nessun tipo di musica può piacere ovunque. Alcuni mesi fa il blogger Proper Discord notava che l’ album più venduto in America nel corso di quella settimana, il pop medley di Katy Perry Teenage Dream, era stato acquistato solo da un cittadino su 1.600. Certo, alcuni generi sono più popolari di altri, ma i gusti individuali possono cambiare in maniera drastica. Quand’ ero giovane amavo il repertorio del XVIII e del XIX secolo e non quello del XX, classico o pop. Ma una volta compresa la forza della dissonanza, ho compiuto il percorso da Schoenberg a Messiaen a Xenakis, inseguendo la pista dei rumori fino alle sonorità post-punk dei Sonic Youth. D’ altra parte, a qualcuno dei miei contemporanei è accaduto di scoprire la musica classica con un procedimento inverso, iniziando non da Mozart ma da Steve Reich o Arvo Pärt. Per formare il pubblico di domani le istituzioni musicali dovrebbero rafforzare il loro impegno per la costruzione di ponti inaspettati tra generi diversi. C’ è una nozione che va decisamente respinta: quella che vede nella musica classica una fonte sicura di bellezza consolatoria – qualcosa come uno spa treatment, un trattamento rigenerante per anime stanche. Atteggiamenti del genere offendono non solo i compositori del XX secolo, ma anche i classici che si pretende di amare. Immagino l’ ira di Beethoven, se qualcuno gli avesse detto che un giorno la sua musica sarebbe stata diffusa nelle stazioni ferroviarie per sedare i pendolari e allontanare i delinquenti. Familiarizzarsi con compositori quali Berg e Ligeti porta a scoprire nuove dimensioni anche in Mozart e in Beethoven: e ciò vale sia per il pubblico che per gli esecutori. Per troppo tempo abbiamo rinchiuso i maestri classici in una gabbia d’ oro; è venuto il momento di aprirla. (Traduzione di Elisabetta Horvat) © Alex Ross/Guardian News & Media Ltd Questa: perché lo stesso pubblico che apprezza la bellezza di un Pollock non riesce ad apprezzare la bellezza di uno Schoenberg? Perché la modernità, in musica, continua a risultare così indigesta? La domanda è semplice ma coglie nel segno, e se c’ era qualcuno che poteva farla non poteva essere che Ross, uno dei pochi, attualmente, che guardi al mondo della musica classica con intelligenza e senza troppi tabù. Bene, non resta che trovare la risposta. Ross ci prova, riassumendo risposte altrui e azzardandone una sua: appaiono tutte credibili, comprese quelle su cui lui mostra di coltivare dei dubbi, e che non sono poi tanto infondate. Probabile che sia la somma di tutte quelle ipotesi a generare il risultato, anomalo, che abbiamo sotto gli occhi. Così come è probabile che altre spiegazioni si possano trovare e aggiungere. Io mi permetto di annotarne una, tanto per non lasciare nulla di intentato. Forse è una questione, anche, di marketing. Ma non nel senso, innocuo, per cui se dai un titolo spiritoso al concerto e distribuisci coca cola, tutto funziona meglio. In un senso più intelligente. Voglio dire che per lunghissimo tempo la musica colta moderna è stata venduta come uno sviluppo naturale della musica classica. Se apprezzavi il cammino che portava da Haydn a Schubert, allora potevi apprezzare il cammino che da Wagner portava a Webern. Se non riuscivi a farlo, il problema era tuo. Il principio ha trovato per decenni una sciagurata formalizzazione nella confezione di concerti il cui schema modello era: Bach, Boulez, Brahms. Una cosa breve di un grande classico, una composizione contemporanea, intervallo, e poi orgia romantica (il disordine cronologico era dettato dal timore di un fugone dopo l’ intervallo). A parte il fastidioso retrogusto da oratorio salesiano (partitellaa pallone, messa, partitonaa pallone), quel modello di concerto imponeva una verità che avrebbe fatto meglio, piuttosto, a mettere in discussione: che ci fosse una sostanziale continuità tra l’ ascolto di un Brahmse di uno Boulez: che si trattasse di prodotti diversi ma fatti per lo stesso tipo di consumo. Li mettevano nello stesso scaffale del supermercato, se riescoa spiegarmi. Come ketchupe mayonnese. Giusto. Ma Chopin e Webern sono davvero, tutt’ e due, salse? Io penso di no e penso che alla lunga il pubblico non abbia perdonato alla musica colta quella sottile truffa. Altrove sono stati più onesti. E’ possibile ad esempio, che il famoso Pollock risulti così più accessibile proprio perché di rado viene esposto di fianco alla Gioconda. L’ arte contemporanea sta, per lo più, in musei di arte contemporanea. Come la danza moderna ha altri circuiti dal Balletto classico. Allora è più facile scegliere, e alla fine apprezzare. Perché gustare Steve Reich non è difficile, amare Monteverdi neppure, ma tenerli insieme e trovarvi una parentela stretta è un’ impresa ostica, spesso insensata, che mette fuori gioco il piacere puro dell’ ascolto e genera solo fatica, spesso inutile, e frustrazione. Probabilmente si avesse avuto la lucidità e il coraggio di separare le cose fin dall’ inizio, sarebbe stata tutt’ un’ altra storia. Non solo per il pubblico, anche per i compositori. Invece che pretendere di essere amati in nome delle loro ascendenze genealogiche (la grandezza di Boulez era legittimata da quella di Wagner che a sua volta era stata legittimata da quella di Beethoven), si sarebbero dovuti giocare il loro destino nel campo aperto dell’ ascolto: senza padri e raccomandazioni sarebbe rimasta la loro musica, giusto posta davanti a un pubblico che non avrebbe dovuto riconoscere la sua bellezza, ma scoprirla. La sua bellezza come la sua eventuale bruttezza, va detto. Ma non è andata così. E adesso non è affatto chiaro come si possa tornare indietro, nell’ esatto punto in cui tutto si è rotto, e ricomporre il filo di una fiducia, tra compositori e ascoltatori, che sembra davvero perduto.

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di Franco Debenedetti – Vanity Fair, 18 gennaio 2011

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