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Pecunia imperare oportet

Pubblicato il 21/05/2009 @ 12:33 in Convegni


Come governare la ricchezza

Ricchezza.
Vasta é la retorica contro la ricchezza: e i testi qui presentati ne sono illustri esempi. Per Platone, nel brano tratto dal terzo libro di Repubblica “di molte azioni criminose è causa la moneta che passa per le mani di molti” ragion per cui i guardiani possono difendere la città solo se “non possiedono alcunché di privato se non il proprio corpo”. Per Aristotele all’economia in senso autentico si contrappone il commercio che non produce beni in senso assoluto, ma solo attraverso il loro scambio.

Radicale lo Pseudo Sallustio: “il danaro di tutte è la sciagura più perniciosa.” E nel “Pluto”, anche per Cremilo, se al dio della ricchezza si restituisse la vista, e questi potesse così frequentare solo la gente onesta, ne deriverebbe una rapida conversione morale di tutti. La ricchezza viene condannata o disprezzata come forma di cupidigia, di avidità. Perché corrompe: “nessuno può innalzarsi […] se non abbandonando le gioie del corpo e della ricchezza per dedicarsi allo spirito“ (Pseudo Sallustio). E perché induce alla corruzione: “gli uomini desiderosi di ricchezze […] vorranno afferrare piaceri di nascosto, cercando di eludere la legge” (Platone, Repubblica, libro ottavo).

Il Talmud ha una posizione un po’ diversa, più vicina a una medietà aristotelica. Riconoscendo che quanto fu creato da Dio per la gioia dell’uomo è fondamentalmente buono, i Dottori non solo consigliano agli uomini di profittarne, ma condannano anzi coloro che se ne astengono. Definiscono il ricco come “colui che trae piacere dalla sue ricchezze”; ma dicono anche “ Chi è ricco? Chi si contenta della propria parte, come è detto: Quando mangi della fatica delle tue mani, felice tu sarai e bene sarà a te”.

In questo coro si distingue, dissonante, la voce di Penia, nel Pluto aristofaneo. L’argomento che svolge è che l’aumento del bene pubblico, la promozione di arti e scienze, deriva dalla circolazione dei beni, dal lavoro di tutti, e che lo stimolo che mette in moto questo meccanismo è la povertà. Il sofisma che divertiva gli spettatori di Aristofane, ne fa oggi il pezzo più attuale. Il disprezzo stoico e poi cristiano per le ricchezze di questo mondo è stato un fiume senza argini, fonte di consolazione per i più, ispiratore di nobili sentimenti ai pochi che potevano permettersi pedagoghi che gliene traducessero i testi.
E’ grazie al duro realismo di Penia se il mondo, da allora, è andato avanti. I poveri di Aristofane non sono schiavi: la necessità che li spinge a lavorare è parente stretta del loro interesse a produrre beni che possano essere venduti e consumati. Beni materiali, che per essere scambiati facilmente ed esportati, richiedono la creazione di un referente unico: il danaro. Con il danaro, gli operai e gli artigiani di Atene allentano il morso della necessità; fa capolino l’interesse. Dietro la limitatezza dello scambio diretto, aldilà della coercizione del baratto, si intravvede la libertà delle scelte economiche. Il sarto e il tornitore di Aristofane sono gli antesignani del macellaio e del birraio di Adam Smith. Con Penia inizia la comprensione dei meccanismi attraverso i quali si è sviluppata la società moderna. Quella che consente la vita ad un numero crescente di miliardi esseri umani su questa terra; e permette ad alcuni moralisti di vivere decentemente deprecando la cogenza sui “mortalia pectora” dell’”auri sacra fames”.

“Come è potuto accadere, si domanda Max Weber nel suo famoso saggio sull’etica protestante, che un’attività, la quale moralmente era a malapena tollerata, diventasse per Benjamin Franklin, una vocazione?” Anche all’epoca di Platone, doveva essere possibile constatare che l’istinto ad acquisire beni e gli sforzi per conservarli ed accrescerli, è inscritto nella natura umana: perché si è dovuto attendere l’inizio della rivoluzione industriale per riconoscere, con Adam Smith, che “un aumento di ricchezza è il mezzo con il quale la maggior parte degli uomini si propone e desidera di migliorare la propria condizione”?

E’ stato un lungo cammino. Con l’inizio della storia moderna cambia radicalmente la percezione di ricchezza e povertà della tradizione monastica cristiana; ai tradizionali poli religioso e politico si affianca quello economico, aprendo così alla fondazione del sistema democratico e liberale: “è stato il capitale svincolato dalla terra – scrive Paolo Prodi in “Settimo non rubare”che ha permesso la nascita non solo della civiltà industriale, ma anche delle nostre libertà costituzionali e dei nostri diritti”.

Calvino per giustificare la ricchezza deve ancora ricorrere a una mediazione esterna, la benevolenza del Signore che ne fa segno di predestinazione, a cui attendere con quotidiana solerzia. Stretta resta la cruna dell’ago, anche se capienti saranno, a Lubecca, i magazzini del senatore Buddenbrook.

E’ con Bernard de Mandeville che cade la contrapposizione tra vantaggio individuale e benessere della città.

Le vice est aussi nécessaire à l’Etat
Que la faim l’est pour le faire manger.
La vertu seule ne peut faire vivre les nations
Dans la magnificence; ceux qui veulent revoir
Un âge d’or, doivent être aussi disposés
A se nourrir de glandes, qu’à vivre honnêtes

Come Machiavelli aveva fatto per la politica, il materialismo di Hobbes libera l’agire economico dalla morale. Finché Adam Smith dà inquadramento teorico al problema. Nonostante i ricchi

“non pensino ad altro che alla propria convenienza, nonostante l’unico fine che si propongono dando lavoro a migliaia di persone sia la soddisfazione dei loro vani e insaziabili desideri, essi […] sono condotti da una mano invisibile a fare quasi la stessa distribuzione delle cose necessarie che sarebbe stata fatta se la terra fosse stata divisa in parti eguali tra tutti i suoi abitanti, e così , senza volerlo, senza saperlo, fanno progredire l’interesse della società, e offrono mezzi alla moltiplicazione della specie”.

Con Adam Smith, la funzione principale dello Stato, non è quella di rimpiazzare il mercato, ma di assicurarsi che funzioni. Di lì in poi la storia del pensiero economico, sarà volta a trovare principii endogeni su cui fondare l’economia politica, senza bisogno di farla dipendere dalla morale o dall’intervento dello Stato; fino a dimostrare che il mercato concorrenziale trova in sé il proprio equilibrio, che si autoregola.

Nonostante fossero affatto diversi i presupposti teorici degli illuministi francesi, l’esilio inglese aveva dettato a Voltaire parole di debordante entusiasmo:

Non so […] se sia più utile allo Stato un signore ben incipriato che sa con precisione a che ora si alza il re, a che ora si corica e che si dà arie di grandezza recitando il ruolo di schiavo nell’anticamera di un ministro; o un commerciante che arricchisce il proprio paese, manda ordini dal suo ufficio fino a Surat o al Cario, e contribuisce alla felicità del mondo.

Destinandolo ad attirarsi, quando le cose non vanno per il verso giusto, il sarcasmo che Victor Hugo mette in bocca al suo Gavroche:

Je suis tombé par terre, c’est de la faute à Voltaire;
le nez dans le ruisseau, c’est de la faute a Rousseau.

Eppure anche là dove introduce la mano invisibile per la prima volta, diciassette anni prima della Ricchezza delle Nazioni, in Adam Smith, come rileva Hirschman, rimane un’ambivalenza verso il valore intrinseco dei beni: giudica un atto di follia quello dei feudatari che si spogliano del diritto di primogenitura per acquistare beni “più adatti al trastullo dei bambini che alle serie occupazioni degli uomini”. Gli uomini su cui agisce la mano invisibile non stanno perseguendo i propri interessi, sono ingannati, perché i beni che ricercano sono “ninnoli e gingilli”.
La polemica contro il lusso mette in evidenza la residua ambiguità riguardo la cultura materialistica, retaggio di generazioni di intellettuali occidentali che hanno svilito il progresso materiale. Il lusso per i conservatori é un pericolo per la gerarchia sociale, perché i poveri desiderano impossessarsene; per la ragione opposta il lusso viene demonizzato dai progressisti perché, essendo prerogativa in primo luogo, o in un primo tempo, dalle classi più agiate, accresce il divario visibile tra le classi sociali. La tesi di Rousseau, secondo cui “se non vi fosse nessun lusso, non vi sarebbe nessuna povertà”, diventerà quella di quei terzomondisti, secondo cui l’industrializzazione dei paesi in via di sviluppo produce benefici alle classi alte e medie, e un ulteriore immiserimento dei poveri.

Moneta.
Pecuniae imperare oportet. Pecunia si traduce sì con beni, averi, sostanze, e quindi ricchezza. Però si traduce anche in danaro, moneta, anzi questo è il significato che conserva in italiano. La natura astratta, nozionale della moneta rispetto a quella concreta, sostanziale della ricchezza, appare già nel brano di Aristotele che ci viene proposto: ma, quando egli mette in guardia dalla prevalenza del “commercio”, sull’”economia in senso autentico”, cioè quella basata sul valore d’uso, è evidente il giudizio di disvalore per “il denaro, elemento e fine dello scambio [da cui deriva] una ricchezza che ha alcun limite” . Una distinzione, quella tra valore e prezzo, destinata a durare secoli; nonostante già Tommaso d’Aquino avesse negato in partenza che si possa assegnare un valore diverso dal prezzo determinato (scoperto, diremmo oggi) dal “commercio”: “Justum autem pretium est, quod secondum aestimationem fori illius temporis potest valere res vendita”.
La moneta non é solo la misura della ricchezza, produce ricchezza: questa sconcertante constatazione é all’origine del dibattito sulla liceità del prestito a interesse che ha imperversato per un paio di millenni. Equiparato all’usura, fu messo al bando dal Concilio di Nicea del 775; nel medioevo la concessione che Mosé avrebbe fatto agli ebrei di praticare l’usura nel rapporto coi gentili, veniva giustificata dal timore che, altrimenti, gli ebrei l’avrebbero praticata fra loro. La completa riabilitazione si ha con Calvino: se nel mondo ebraico il prestito a interesse era vietato solo fra ebrei, poiché il cristianesimo è superiore all’ebraismo, può essere ammesso anche tra i battezzati. Ragionamento curioso a sostegno del pragmatismo politico: se la società borghese sta diventando dominante, il cristianesimo deve tener conto di questa nuova realtà; se vuole impostare un nuovo dialogo con l’emergente borghesia, deve necessariamente porsi il problema di come giustificare una prassi che vuole diventare “legge” a tutti i livelli.
La distinzione tra pecunia ricchezza e pecunia moneta si ritrova in quella che Montesquieu fa, nell’Esprit des lois, tra proprietà fondiaria e proprietà mobiliare: questa si poteva sviluppare grazie alla lettre de change, inventata dagli ebrei per sfuggire alle accuse di usura. Insieme all’arbitraggio tra monete, la lettera di cambio serve a limitare il potere del principe, rendendogli impossibile disperdere le ricchezze del paese con grands coups d’autorité. Addirittura Spinoza riteneva che ai cittadini dovesse essere impedito di possedere beni immobili: questi infatti esistono solo in quantità limitata, generano dispute e invidie per il loro possesso, mentre la quantità di danaro che può essere posseduta dai singoli è limitata solo dalle iniziative personali.

Finanza.
Se, oltre la concreta solidità della pecunia come ricchezza, guardiamo alla impersonale fungibilità della pecunia come moneta; se al ricordo della lenta transumanza degli armenti da cui la parola trae la sua origine, sostituiamo la fulminea velocità con cui si trasferisce il capitale finanziario, oggi l’oportet esprime l’urgenza di riuscire a governare la grande crisi finanziaria che stiamo vivendo. Questo é un momento di discontinuità: drammatico per gli effetti sugli individui, portentoso per gli sconvolgimenti nelle strutture economiche, storico per il modificarsi dei rapporti di potere tra stati.

Come é potuto accadere? Questa crisi, per essere compresa a fondo, richiederà una svolta del pensiero economico. Ma intanto il contesto generale in cui si é sviluppata la crisi inizia a chiarirsi.

Questa crisi è il risultato della confluenza di due fenomeni: la deregolamentazione del settore bancario iniziata negli anni ’70; i bassi tassi di interesse praticati dalla FED nei primi anni del nuovo secolo.
Se il danaro costa poco, la gente ha interesse a mettere i propri risparmi in case e titoli azionari, che anch’essi e per gli stessi motivi crescono di valore in Borsa (o a contrarre debiti per farlo).
Il processo di deregolamentazione degli anni ’70 aveva per obbiettivo in primo luogo beni e servizi, e fu esteso alle banche, che operavano in un settore fortemente regolamentato. La deregulation consentì agli operatori finanziari non bancari di offrire servizi sostitutivi, e quindi obbligò a ridurre i vincoli alle banche per permettere loro di restare competitive.

Questi fatti sono stati errori?

Greenspan difende la sua politica di tassi: non si può prevedere quando un aumento dei prezzi di un asset diventerà una bolla, quindi la sola cosa da fare è attendere che scoppi e spazzar via i detriti. Ma il fatto che non fosse (politicamente?) accettabile alzare i tassi, non è giustificazione per averli tenuti eccessivamente bassi (in questo caso addirittura negativi in termini reali).

Quanto alla deregulation, si può sostenere il contrario, vale a dire che l’errore sia stato deregolamentare in ritardo, mantenere a lungo una separazione disfunzionale allo sviluppo dell’industria finanziaria, consentendo alle banche di investimento di crescere mantenendosi separate dalle banche ordinarie e di focalizzarsi sulla creazione e vendita di prodotti cartolarizzati. In ogni caso le autorità di regolazione, la FED e la SEC, disponevano di strumenti di indagine e di intervento ampiamente sufficienti, che non hanno usato. Non hanno diagnosticato la crisi neanche all’undicesima ora: il successore di Greenspan, Ben Bernanke, ancora nell’ottobre 2005, negava che quei prezzi indicassero una bolla di cui erano evidenti i prodromi.

Il controfattuale è offerto dalle contraddizioni a cui va incontro chi vuole ri-regolamentare le banche.
Individuare le banche “too big to fail” e sottoporle a un “regolatore sistemico”? Ma il rischio sistemico non dipende dalla dimensione, Lehman Brother’s non era molto grande; se raggiungere una certa dimensione comporta regole più stringenti, le banche cercheranno di non superarla, con un potenziale effetto negativo per l’economia.
Reintrodurre lo Glass- Steagall Act? Ma questo tra l’altro limitava l’apertura di sportelli, per ridurre la concorrenza tra banche, e proibiva di pagare interessi sui conti correnti: come si fa ad applicare questa regole anche agli hedge fund, che pure sono la parte più dinamica dell’industria finanziaria e che non hanno posto rischi sistemici?

Accanto a questi due, molti altri fatti hanno concorso allo svilupparsi della crisi. In America, la grande campagna lanciata per promuovere la proprietà della casa, il disegno politico di consentire a tutti gli americani di avere il segno tangibile e permanente della propria ricchezza, diventare padroni di casa. Una campagna sostenuta da atti legislativi, protrattisi nel tempo, che giunsero perfino ad esercitare controlli e pressioni sulle banche perché i mutui venissero accordati anche a persone che ad ogni evidenza non potevano permetterseli.

A livello mondiale, l’innesto dell’economia di mercato nel sistema sociale di un grande paese comunista, produce un’enorme crescita della produttività che rende le merci cinesi estremamente competitive, mentre la mancanza di sistemi di welfare pubblico obbliga i lavoratori cinesi a tassi di risparmio a noi sconosciuti. Il savings glut si incrocia nell’America di Bush, con una politica di bilancio molto espansiva e una monetaria molto permissiva. Insieme all’effetto ricchezza indotto dal boom immobiliare, spinge le famiglie a indebitarsi, facendo di loro e dei loro consumi il motore, gli eroi, dell’economia mondiale.

Infine l’innovazione tecnologica, i progressi nella teoria finanziaria, che consente la creazione di sistemi molto efficienti di dispersione del rischio. In generale, le innovazioni introducono discontinuità, i lauti profitti che esse consentono ai primi entranti premiano normalmente più il capitale che il lavoro; mentre le difficoltà per le aziende mature, spiazzate dalle innovazioni, si ripercuotono rapidamente sui dipendenti. Intanto le importazioni dall’est asiatico contengono i prezzi dei beni, l’immigrazione dal Messico fa lo stesso per le rivendicazioni salariali, la bolla immobiliare induce a spendere i danari di una inesistente ricchezza: ne deriva una divaricazione nei redditi, un indubbio problema sociale.
Ma la soluzione non la si può chiedere al mercato: il mercato é un sistema per la formazione dei prezzi non per la distribuzione della ricchezza. Questa é la politica che deve produrla. E’ questa che deve sbloccare “l’ascensore sociale”, assicurare la mobilità e la meritocrazia che erano caratteristiche della società americana. Ritorna in mente Platone: “Guarda infatti che cosa succederebbe se uno costituisse i timonieri della nave in base al censo, e a chi è povero, pur se fosse un timoniere abilissimo, non lo concedesse” .

Interessi.
Come esistono due significati di pecunia, così esistono due significati di “interesse”. Il significato più antico è quello di compenso per la pecunia -danaro dato a prestito, che è stato a lungo equiparato all’usura, finché fu riscattato da Calvino. E ce ne é un altro, legato all’etimo latino, intersum, essere in mezzo, essere vicino, intervenire, prendere parte, importare: ancor oggi, i ragazzi di Milano, di una cosa di cui gli importa, dicono “ci sto dentro”: un significato molto più ampio di quello puramente economico.

Fu nel tardo Cinquecento, scrive Hirschman, che “il termine interesse, nel senso di preoccupazione, aspirazione, vantaggio, diventò di uso corrente nell’Europa occidentale. Esso non era in alcun modo limitato agli aspetti materiali del benessere dei singoli, ma comprendeva piuttosto la totalità delle aspirazioni umane”.

Da allora la parola subisce una deriva semantica. La polarizzazione sul significato economico inizia quando ci si preoccupa di dare una base realistica all’analisi del comportamento umano, al fine di migliorare la qualità dell’arte di governo.
Interesse cioè come sinonimo di ragion di Stato, per superare le norme morali della filosofia politica pre –machiavelliana, e fornire al principe una base razionale alle sue azioni.
L’interesse si inserisce come terza tra le due categorie, di passione e ragione, che da Platone in poi avevano dominato l’analisi dei moventi umani, “ibrido immune tanto dalla distruttività della passione quanto dalla ineffettualità della ragione”.
Si capisce l’eccitazione intellettuale che accompagna la scoperta che l’interesse, nel senso di quello per beni e ricchezza, fornisce una base realistica per dare alla società un ordine vivibile. Nella Ricchezza delle Nazioni, Adam Smith pone in termini generali gli interessi economici come motivazione suprema dell’uomo:

Un accrescimento dei beni è il mezzo con il quale la maggioranza degli uomini cerca e desidera migliorare la propria condizione. Esso è il mezzo più comune e più ovvio.

Arrivando così alla finale identificazione dell’interesse con la particolare passione per il danaro.

A due secoli di distanza, l’interesse come base razionale dei comportamenti, diventerà l’ipotesi della razionalità dei mercati, dove i prezzi incorporano tutte le informazioni disponibili, e che quindi hanno in sé le conoscenze e la capacità di autocorreggersi.
Questa ipotesi ha ricevuto dalla grande crisi finanziaria un colpo, che alcuni vorrebbero decisivo: come è possibile, si dice, che operatori singolarmente razionali diano luogo a un esito collettivamente così disastroso?

Ma era poi così irrazionale il comportamento degli operatori? Manager e investitori prendono decisioni nel quadro delle leggi e delle regole vigenti in quel momento. Se alla fine l’effetto cumulativo di queste decisioni dà esito negativo, allora l’accusa di irrazionalità va almeno ripartita con chi quelle leggi ha scritto. Cattive regole producono cattivi comportamenti.
Non era irrazionale il comportamento di chi comprava una casa a debito. Non lo era quello dei banchieri: essi ben sapevano che se i prezzi delle case fossero scesi di un 20%, molti di loro sarebbero falliti, e che la successiva recessione avrebbe aumentato le sofferenze dei crediti, tant’è vero che cercarono in tutti i modi di diversificare i rischi, producendo quelli che ora si chiamano prodotti tossici.
Ma, osserva Richard Posner, nessuna banca avrebbe potuto giustificare di fronte ai suoi azionisti una riduzione del rischio, e quindi dell’utile, solo perché questo avrebbe potuto provocare una crisi e quindi una successiva depressione: se l’avesse fatto avrebbe solo perso mercato a vantaggio dei suoi più audaci concorrenti, senza nessun vantaggio collettivo. Anche risparmiare di più durante una crisi, comportamento logico da parte di chi teme di poter perdere il proprio lavoro, se perseguito collettivamente, porta alla recessione: dovremo biasimare chi nella crisi non spende i propri risparmi?

I banchieri hanno certamente la responsabilità di questa crisi; il che non vuole dire che ne abbiano la colpa. Vituperare le banche perché seguono il proprio interesse, oppure chi compra una casa con un mutuo che, se sopravviene una crisi, non sarà in grado di pagare, significa ignorare che il capitalismo è un processo darwiniano.
Come lo è, d’altro canto, la politica, solo che lì si compete per i voti anziché per i dollari.
Fa un’analisi superficiale degli interessi chi addebita la crisi ai top manager delle grandi banche, descritti come individui irresponsabili, cinicamente volti ad assumere alla leggera rischi eccessivi, ad adottare strategie di breve termine solo per incassare i loro lauti bonus. I bonus sono pensati per allineare gli interessi di manager ed azionisti: l’intermediazione finanziaria, proprio perché è un’attività intrinsecamente rischiosa, attrae persone che accettano il rischio.

Oggi, con la crisi finanziaria si sta diffondendo l’idea che “il primato del mercato abbia condotto il mondo occidentale in un vicolo cieco, in una crisi morale e ora anche economica, e che occorra ristabilire il primato della politica attraverso regole dotate di forte caratura etica, al servizio del bene comune”.
Ma “la politica” ha anch’essa una propria agenda: al primo posto c’é l’interesse a conquistare e mantenere il potere.
E’ evidente l’interesse che la politica ebbe per “bolla ideologica” che produceva una inaudita crescita del PIL e del gettito fiscale, trainata dal credito. Quanto questo interesse ha influenzato la regolazione?

Negli USA la politica del Governo è di usare tutte le ricette disponibili, e tutte in dosi massicce. In Europa invece prevale l’interesse a scrivere le regole che dovrebbero impedire la prossima crisi. Ma poiché questa non si verificherà domani, e dato che si è ancora lontani dall’avere un modello che spieghi persuasivamente il perché, e della crisi e della successiva depressione, la priorità data alla regolamentazione è rivelatrice di un’altra priorità, quella di arrogarsi maggiori poteri nella allocazione delle risorse, nel dilatare l’area dell’economia intermediata dallo stato.
Con il pretesto di promuovere una maggiore eguaglianza, invece di aumentare quantità e varietà delle opportunità, si riducono gli incentivi del mercato a produrle e le possibilità per i cittadini di coglierle.
La persecuzione contro gli hedge fund, che non hanno provocato rischi sistemici, e che non sono costati soldi agli stati, serve gli interessi delle banche che così mettono le briglie ad aggressivi concorrenti.
La lotta ai paradisi fiscali serve gli interessi delle finanze dei paesi indebitati, che così eliminano la concorrenza di sistemi tributari meno oppressivi.
Ogni intervento per imporre l’“ordine” del regolatore all’ “anarchia” del mercato, favorisce alcuni interessi a danno di altri, pone le condizioni per la cattura del regolatore. Inesorabilmente, gli atti di governo sono soggetti alla nemesi delle conseguenze inintenzionali.

Usciremo da questa crisi.
Usciremo con un immenso debito pubblico, sistemi politici ed economici stressati e sprovvisti di risorse.
Con il commercio globale che ristagna, con il risparmio privato obbligato prima a rientrare dal debito e poi a ricostituire un minimo cuscino protettivo, con le aziende costrette a limitare gli investimenti a quanto consentito dell’autofinanziamento, concreto é il rischio che i governi cadano vittima dell’illusione fatale: credere che una politica intrusiva e programmatoria possa essere garante di regole e diritti, mentre non può che condurre a meno libertà e meno prosperità.
E’ illusorio pensare che il problema del corretto apprezzamento del rischio, compreso quello sistemico, possa essere risolto regolando, segmentando, limitando.
E’ vano credere che si possa fare a meno dell’autoregolamentazione dei mercati.

Le nostre speranze le possiamo riporre solo in quanto – poco o tanto- resterà libero, soggetto alla regola base del capitalismo, quella secondo cui si é liberi di rischiare, ma chi sbaglia paga.
A farci uscire dalla crisi sarà “il commercio”, lo scambio per trovare chi sa dare il valore alle nostre cose, sarà la scoperta di nuovi beni e di nuovi servizi per soddisfare le richieste presenti e per suscitarne di inespresse.
A riprendere la strada della crescita sarà l’interesse dell’individuo, di ogni individuo, a far trovare il modo di usare le ricchezze che ci sono per creare maggiore ricchezza. Saranno gli interessi a detronizzare la pecunia regina, e farne invece l’ancella che ci procuri maggiore benessere, maggiore sicurezza.
E maggiore libertà.

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