Non candidarti, si conta di più da fuori

febbraio 21, 2008


Pubblicato In: Corriere Della Sera, Giornali

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Lettera a Pietro Ichino

Caro Pietro, in questi anni, dal 1996, quando ti chiesi di poter presentare in Parlamento le proposte – art. 18, collocamento pubblico, rappresentanze sindacali – contenute nel tuo “Il lavoro e il mercato”, sei stato prodigo con me di idee e di consigli. Proprio ripensando alle esperienze fatte a partire da quel primo episodio, saputo che stai considerando di accettare la candidatura alle elezioni politiche, ti scrivo per chiederti di recedere dal tuo proposito.

Oggi nel Paese c’è, credo, maggiore consapevolezza della necessità di por mano a riforme liberalizzatrici; bisogna cogliere il momento e trasformare la consapevolezza in consenso. Il punto è: che cosa è più efficace, spendersi per cercare di convincere i colleghi, del proprio partito se si é maggioranza, del partito avverso se si è opposizione, oppure smuovere l’opinione pubblica? Le liste di chi entrerà in Parlamento, predisposte dalle segreterie, rispecchieranno equilibri politici. Questi, al momento del voto, conteranno sempre di più delle tue idee. Sarà più efficace combattere in commissione, o scrivere un editoriale sul Corriere? Io non ho dubbi, e l’ho constatato avendo fatto in un certo senso il percorso inverso al tuo, usando il seggio al Senato per scrivere e far conoscere. agli (e)lettori il patrimonio di idee che tu, io ed altri abbiamo la ventura di condividere, e abbiamo contribuito a far crescere in questi anni.

Il Paese ha bisogno di progetti limpidi: tu hai logica affilata, grande cultura giuridica e di analisi economica del diritto. La politica, invece, è anche compromesso: come ci sono tante persone che possono premere bottoni, così ce ne sono tante esperte in questa nobile arte. Compromessi su una parola, su un comma: a volte sull’intero progetto, diventato merce di scambio. Serve Marta, ma è Maria di cui non si può fare a meno; capisco il pragmatismo di Aronne, ma ci vuole Mosè per scrivere le tavole. Come faremo se non resta nessuno a indicare la rotta, a misurare gli scostamenti?

Si sta aprendo una stagione politica nuova. Chiudere la fase del bipolarismo di trincea, degli “anti” viscerali, corrisponde agli interessi dei contendenti, è frutto di intelligenza, non di bontà. L’esito della competizione è incerto, anzi al momento è (ancora) in vantaggio il PdL. Serve al Paese, serve alle idee che ci accomunano, che i chierici non tradiscano il compito di dare il proprio contributo, sia a chi sarà al Governo sia a chi sarà all’opposizione, ad entrambi suggerendo ed entrambi criticando. Non è più il tempo della cooptazione degli intellettuali organici, né quello del massiccio innesto di personaggi della società civile. Oggi invece, alcuni episodi fanno pensare che ci sia, da parte dei politici, la tentazione di non rispettare il confine tra sostenere le idee e cooptare il consenso, e di surrogare l’assunzione di impegni con l’aggregazione di testimoni simbolici. Compito degli intellettuali è non prestarsi a questa tentazione: perché sarebbe un errore, e per gli intellettuali e per i partiti, soprattutto se si aprirà una stagione politica meno segnata da pregiudizi. E perché sarebbe una perdita: i maestri nel nostro Paese sono così pochi, la loro voce deve arrivare chiara e a tutti, non dispersa in polifonie, parlamentari o di parte.

Con amicizia

Insisto, la politica è utile
risposta a Franco Debenedetti

di Pietro Ichino

Caro Franco,
puoi immaginare quante risonanze abbia in me il tuo ammonimento. Accettare di tornare in Parlamento significa rinunciare non soltanto al mio lavoro di editorialista del Corriere, ma anche a quello di professore in un dipartimento universitario che ho contribuito a costruire dal nulla nel corso di un quarto di secolo e che considero uno dei migliori del Paese nel campo degli studi del lavoro e del welfare. E poi: lasciare la direzione di una rivista di diritto del lavoro a cui ho dato l’anima per decenni; interrompere il mestiere di avvocato che mi è stato insegnato da mio padre e mio nonno e che considero il più bello di tutti i mestieri; condannarmi a una vita scomoda, sempre in viaggio, su e giù da aerei e treni, lontano da casa. Tutto questo per che cosa? Per un posto di peon nelle defatiganti liturgie romane, o peggio nelle risse scomposte cui le cronache parlamentari ci hanno abituati?
No di certo. Il fatto è che se ci rassegniamo a un Parlamento che conti meno di un’aula universitaria o di una prima pagina di giornale, sia pure del più importante, poi non possiamo lamen-tarci che tra la gente prevalga l’antipolitica. Se ci rassegniamo all’idea che essere parlamentari di un partito significhi rinunciare anche solo a un poco della propria indipendenza di giudizio e di pa-rola, quindi perdere credibilità di fronte all’opinione pubblica, non possiamo lamentarci che la gente identifichi la politica con la faziosità; e che essa non creda più a niente se non al proprio interesse particolare. Per riattivare il grande “gioco a somma positiva” del senso civico, di quella cultura delle regole di cui l’Italia ha fame e sete, oggi servono soprattutto persone di cui la gente possa fidarsi per la loro storia personale, indipendentemente dal partito nelle cui liste si candidano; uomini politici capaci di incarnare nel loro stesso comportamento personale la dedizione esclusiva alla res publica.

Io dalla società, dal mio Paese, finora ho avuto tutto ciò che potevo desiderare, in grande abbondanza, senza gran merito. Di tutto questo non avevo e non ho alcun diritto. L’unica possibile giustificazione di tanti privilegi sta nell’essere pronto a rimetterli in gioco, se questo può essere utile al Paese stesso che me li ha dati. Oggi, in un momento difficilissimo per la Nazione, di fronte a una persona che considero limpida e coraggiosa, come Walter Veltroni, che mi chiede di dare una mano per restituire alla gente fiducia nella politica, nelle istituzioni, non ho il diritto di tirarmi indietro. Certo che, apparentemente, sacrifico moltissimo: rinuncio in un solo colpo a tante posizioni di pre-stigio e anche di potere effettivo. Ma quanto maggiori sono le prerogative e le gratificazioni che la-scio, tanto più forte è il messaggio che spero di riuscire a lanciare ai miei concittadini: lo faccio nel tentativo di convincerli che la politica può anche essere un gioco pulito e non animato solo da spirito di parte o da interessi particolari; che per parteciparvi può anche valere la pena di sacrificare la tribuna autorevolissima del Corriere, il piacere e il calore degli studenti intorno alla propria cattedra, una parte del proprio reddito, una vita comoda e tranquilla.
Ciò di cui oggi l’Italia ha bisogno, più ancora che delle pur utilissime analisi e ricette per il risanamento, è la fiducia della gente in un ceto politico veramente autorevole: di quell’autorevolezza che nasce dal senso dello Stato e dal totale disinteresse personale. Forse sbaglio; ma mi sembra che questo sia il contributo più utile che posso dare al mio Paese. E che proprio ora sia il momento in cui è più necessario farlo.

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