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No al cablaggio dell’intero paese da parte di un solo soggetto

Pubblicato il 25/05/1995 @ 15:53 in Giornali,Il Sole 24 Ore


Diversi fatti nuovi hanno agitato il mondo delle telecomunicazioni da quando ho esposto alcune idee per uno sviluppo che garantisca mercato e concorrenza (si veda Il Sole 24 Ore del 29 aprile e del 6 maggio). E ancora: Dini ha confermato che intende procedere velocemente alla privatizzazione di Stet, senza peraltro dire una parola sulla liberalizzazione del mercato; Telecom ha annunciato la volontà di allacciare con impianti cavo 10 milioni di case entro il 1998, cioè entro la data di liberalizzazione imposta da Bruxelles; il ministro delle Poste, Gambino, ha annunciato che emetterà il regolamento alla legge 73 del 1991: i privati avranno libertà di fare impianti cavo… limitatamente a quello che Telecom sceglierà di non fare.

Il lodo Guarino per evitare i referendum (almeno nella sua prima versione) propone di cancellare la Mammì, mantenendone solo, insieme alla parte relativa al Garante, quella che concede a Telecom la riserva di legge per gli impianti cavo.
Infine, al convegno di Reseau a Venezia, un alto dirigente Stet pone in relazione l’esito dei referendum con lo sviluppo di Stream, confermando quindi le ambizioni televisive di Stet.
Tutti fatti che confermano l’assoluta centralità del problema delle reti cavo: non già perché esse ci aprono le porte di una futuribile società dell’informazione, ma perchè esse sono l’attualissimo anello strategico che consente di rendere inattacabile per sempre il monopolio telefonico e allo stesso tempo di fare di chi lo detiene un attore di primo piano del sistema televisivo. È quindi diventato ormai chiaro che quando si parla di reti-cavo la posta in gioco è quella di accrescere enormemente il valore economico di Stet e di conferirle il potere politico che hanno da noi le Tv.
Averlo detto forse per primo è l’unico merito ci tribuisco: quanto al pregio propositivo che Franco’ ti riconosce sul Sole al mio progetto di assetto dei esso è in realtà assai modesto: si tratta infatti di principi che solo da noi non sono ovvii, mentre altrove ormai praticati e collaudati con successo. Per chiarezza, ne ripeto linee essenziali:
- se si vuole avere concorrenza nel sistema telefonico, bisogna che ci siano più operatori con proprie infrastrutture.
Bisogna quindi evitare che l’attuale monopolista si rafforzi in quelle interurbane , impedendogli di acquistare le reti Enel, Fs, Autostrade, Rai ecc. E bisogna evitare che occupi lo spazio delle infrastrutture quelle urbane in fibra ottica, riservando la cablatura delle città ai nuovi operatori;
- le reti-cavo sono economicamente convenienti solo se possono fornire servizi sia telefonici che televisivi: quindi i nuovi concessionari delle reti-cavo dovranno essere autorizzati a fornire entrambi i servizi;
- perché un mercato contendibile nelle Tlc sia prospettiva non puramente teorica, bisogna dare ai concorrenti di Telecom la possibilità di crescere: quindi per un certo numero di anni all’attuale monopolista deve essere impedito fornire servizi televisivi, analogamente a quanto è stato fatto in Inghilterra e in Usa.
A questi semplici propositi, si contrappone una tesi: si affidi a un unico soggetto il compito di cablare il paese. Si tratta di una tesi che non ha nessun fondamento economico, e che ha un ingannevole fondamento sociale.
La tesi non ha fondamento economico perché: non esiste nessuna apprezzabile economia di scala: larga parte del costo sta nello scavare condotti nelle strade e allacciare le abitazioni.
Inoltre, se si mettesse in gara un’unica licenza a livello nazionale, alla fine avremmo comunque appaltato un monopolio.
Infine se chi fa l’infrastruttura unica non è autorizzato a fornire anche servizi televisivi, si rallentano gli investimenti (per il rimpallo di responsabilità tra chi stende il cavo e chi vuole fornire servizi su dove e quanto investire); se invece è autorizzato a fornire anche servizi televisivi, si dà luogo a un abnorme e inaccettabile monopolio telefono-Tv.
La tesi del cablatore unico ha poi un ingannevole fondamento sociale. Per più di una ragione:
- i rischi di mercato (quando si svilupperà?) e di scelte tecnologiche (dove si assesterà il rapporto di competizione-collaborazione tra cavo e satellite?) vengono accollati alla collettività, mentre ci sono capitali privati disposti a rischiare in proprio;
- per molti anni (10 o 15 almeno) le reti cavo daranno solo segnale Tv, che tutti ricevono, e telefono, dove l’uguaglianza è sostanzialmente ottenuta (se così non fosse dopo 70 anni di obbligo di servizio universale, bisognerebbe concludere che il sistema non è servito a granché);
- con il miraggio del servizio universale, universale è da subito il pagamento; se il progetto è finanziato da privati imprenditori, l’impianto lo paga solo chi ne usufruisce dei servizi, mentre se Telecom è il cablatore nazionale, è l’utente del telefono tradizionale che paga i nuovi impianti; anzi, e questo è l’aspetto grottesco, gli utenti del monopolio del telefono devono pagare per renderlo inattaccabile! Sono gli impotenti abbonati del telefono che dovranno in ultima analisi sborsare i 60 mila Mld, quanto costa eternare il monopolio e consentire a Telecom di diventare un attore di primo piano del sistema televisivo;
- si attende il servizio universale proprio dall’azienda su cui ricade la responsabilità di non aver dato finora il servizio a nessuno.
Queste non sono illazioni sul futuro comportamento del monopolista, prescindono completamente dal suo (peraltro documentato) mancato rispetto di ‘condizioni di parità’, da eventuali ‘sussidi incrociati’ o altre pratiche contrarie alla concorrenza, come scrive Franco Morganti. La sua affermazione che «una posizione dominante non è ancora un abuso» è sorprendente: non sa forse che tutte le autorità antitrust sanzionano le concentrazioni che creano o aumentano posizioni dominanti?
In questo caso siamo all’inizio della creazione di una nuova infrastruttura, e di un nuovo mercato: si suggerisce forse di aspettare che si verifichino gli abusi, per poi faticosamente, tardivamente e costosamente smantellarli? Stet ha goduto di riserva di legge sul cavo per decenni; dobbiamo a Stet quindi se l’Italia, insieme a Portogallo e Grecia è l’unica a non avere reti-cavo: quale folgorazione l’ha mai colta per lanciare un programma gigantesco alla vigilia del 1998. se non l’urgenza di proteggere il proprio monopolio? Ma soprattutto: perché il monopolista dovrebbe avere una posizione privilegiata? Supponiamo che Stet fosse privata, che il nucleo stabile (che Dini vuole) comprendesse Agnelli, Pirelli, De Benedetti, e che si proponesse di lasciare loro l’esclusiva delle reti-cavo: si lascia immaginare come (giustamente) si strapperebbero le vesti gli attuali partigiani di Telecom cablatore nazionale!
Né possiamo aspettare che a regolare la materia provveda l’ Authority; a essa la legge non assegna il compito di rilasciare le concessioni, e quindi di definire l’assetto del sistema.
Ieri Ernesto Pascale è intervenuto sull’argomento sul Corriere, distinguendo i ruoli di produttore, fornitore e distributore di servizi. Egli nega che Stet voglia diventare produttore di contenuti: poiché nessuno aveva sospettato Stet di ambire a diventare produttore cinematografico, apprendere che non intende acquistare una squadra di calcio non è notizia sorprendente. Sorprende invece che nelle tre colonne dell’articolo dell’amministratore delegato dell’azienda che ne detiene il monopolio, il telefono non sia citato neppure una volta esplicitamente, ma vi si faccia riferimento solo una volta come «il suo business» e un’altra genericamente come «servizi di telecomunicazione». Sicché siamo, nuovi Don Ferrante, lasciati nel dubbio se di esso Stet si consideri fornitore o distributore. Invece questo è il punto che interessa: se la ragione dell’investimento nel cavo sta nella convergenza tra telefono e multimedialità, è chiaro che i nuovi operatori saranno svantaggiati se dovranno competere con chi non solo nel telefono avrebbe comunque una posizione dominante, ma ne possiede l’unica infrastruttura. A questo proposito, come ha ieri opportunamente richiamato il commissario europeo Karl Van Miert «bisogna permettere ai concorrenti un accesso reale per ogni tipo di servizi. È qui l’ importanza dell’apertura delle infrastrutture. O si permette un accesso non discriminatorio, o si permette al concorrente di avere proprie infrastrutture». Finora, ha continuato Van Miert, in Gran Bretagna non è stato permesso a chi deteneva – in Italia detiene ancora – il monopolio telefonico, di sviluppare altre attività.
Stet è già connessa al cliente dalla rete tradizionale: dovendola rifare, si dia ad altri la possibilità di realizzare la connessione e al cliente la possibilità di scegliere: questa è concorrenza, altra parola che non compare nello scritto di Pascale.
Ci si domanda perfino se questa sia la strategia giusta per Stet, il cui titolo, dopo l’annuncio della decisione di cablare 10 milioni di case, ha perso il 10 per cento: segno che gli investitori non reputano questo investimento né profittevole, né utile alla lunga a evitare la caduta del monopolio.
A questo punto, altro è l’interrogativo che sorge: perché stiamo ancora a discutere su fatti e proposte di comune buon senso, che non hanno alcuna controindicazione, che sono stati sperimentati con successo ovunque?
C’è una ragione culturale: dopo tanti anni di presenza pubblica nell’economia (e il penetrante attivismo di Stet ed Enel nell’influenzare i formatori di opinione), la cultura di mercato, la fiducia nei meccanismi di mercato, è merce rara in questo paese. Inconveniente grave per un’economia così integrata come la nostra, è come andare all’estero senza saper le lingue; forse non si riflette abbastanza sul costo economico di questo retaggio.
E ci sono ragioni politiche: An e Rc si oppongono alle privatizzazioni per principio. Forza Italia vede la sua libertà di manovra limitata dal dover difendere la posizione oligopolistica Fininvest nella battaglia per l’etere. Pds e popolari (di entrambi i riti), che pure contano tra le loro fila personaggi di grande cultura e di sicure convinzioni liberiste, sentono ancora il retaggio di troppi anni passati a considerare le industrie di Stato come un mondo a sé (quelli sì i veri ‘unti del signore’), e inerzialmente pensano che i diritti speciali di cui hanno goduto e le salvifiche virtù di cui sono stati accreditati permangano nel passaggio da proprietà del Tesoro a proprietà diffusa.
Con la paradossale conseguenza che proprio coloro che oggi si affannano a ridimensionare il potere di Berlusconi, ne danno vita a uno nuovo, di quello assai più potente, finanziandolo con il danaro degli abbonati. Nel ripetersi della storia, non sempre, come si dice, ‘la seconda volta è fare comunque non sembra il caso di attendere per verificarlo.

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