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No a una Confindustria scelta dai politici

Pubblicato il 20/05/2003 @ 16:40 in Giornali,Il Riformista

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Bilanci. L’ultimo anno di D’Amato alla presidenza

Giovedì prossimo, all’assemblea generale di Confindustria, la gravità della situazione economica in cui versa il Paese, di cui ormai tutti hanno preso coscienza, appesantirà l’atmosfera e graverà sulla relazione di Antonio D’Amato, in pratica la sua ultima, dato che la Presidenza scade a maggio del 2004.

Sarà un’atmosfera molto diversa da quella che si respirava al convegno della piccola industria di Parma, nel marzo 2001, quando D’Amato fornì a Silvio Berlusconi, in campagna elettorale, la corona da porsi in capo. “Mi hai portato via il mestiere – disse il candidato premier – il tuo programma è il mio”: e venne giù la sala. Pochi mesi dopo, perfino il Governatore Fazio, nelle sue considerazioni finali, parlava di nuovo miracolo italiano. Pesa il confronto tra quelle aspettative e questa realtà. E più d’uno criticherà D’Amato non già per aver puntato sul cavallo sbagliato – come la Fiat dell’Avvocato, anche Confindustria è governativa per definizione – ma per aver puntato troppo su un cavallo che ha sbagliato troppo. E alla fine saranno proprio le colpe del governo a contare nel giudizio sul suo mandato al comando dell’associazione degli industriali italiani.

“Non siamo nella fase bassa di un ciclo normale, con qualche complicazione geopolitica – scrive Franco Bruni sulla Stampa del 16 Maggio – la situazione assomiglia di più a un inceppamento, strutturale e globale, del meccanismo dello sviluppo. [...] E’ una crisi seria che va affrontata seriamente, guardando lontano, con ambizione e coraggio, in tutte le direzioni.” Non è certo del governo la colpa di una crisi europea e mondiale: ma non sono scusabili il ritardo con cui il governo stesso ha preso atto del mutato quadro mondiale, la mancanza di trasparenza con cui ha aggiornato le previsioni, colpa particolarmente grave nei riguardi di chi, come gli industriali, ha bisogno di previsioni affidabili.
Articolo 18. Per D’Amato “un impegno preciso”. La grande battaglia ha partorito una “riformicchia”, un risultato modesto, pagato con molte ore di sciopero. In realtà D’Amato ha portato a casa altre, e assai più rilevanti, forme di flessibilità, nel part time e nei contratti a tempo determinato, ma anche con l’introduzione del job sharing. Non altrettanto può dirsi per il governo, tant’è che il premier, nel discorso di fine anno, aveva dichiarato che non avrebbe posto più mano a un tema che era risultato così costoso in termine di immagine. Viceversa la spaccatura nel sindacato può darsi che abbia fatto gioco al governo, difficilmente è un vantaggio per gli industriali.
Pensioni. Di sicuro c’è l’utilizzo del TFR, che obbliga le imprese a cercare nel sistema bancario finanziamento sostitutivi: un aggravio in particolare per piccole imprese, già molto indebitate.
Infrastrutture. Il passante di Mestre, che è per le infrastrutture quello che l’art. 18 è per la flessibilità, ha provocato contestazioni clamorose, e proprio in una zona di consensi elettorali sia per il presidente di Confindustria sia per quello del Consiglio. In generale, la legge obbiettivo resta molto al di sotto delle aspettative.
Imposte. La massima aspettativa degli industriali era sulla riduzione del carico fiscale. La battaglia di Tremonti per riequilibrare un sistema squilibrato a favore delle grandi industrie (Dit, Superdit, Irap) è largamente rientrata. Il nuovo schema basato su due sole aliquote è stato approvato in Parlamento, ma mancano le risorse per attuarlo e la riduzione dell’Irpeg è praticamente compensata da un aumento dell’imposizione locale.
Privatizzazioni e liberalizzazioni. D’Amato batte e ribatte su questo tasto, Tremonti risponde proponendo neocolbertismo, sussidi alle industrie di stato (le linee aeree, ultimamente), protezionismo: c’è da chiedersi quale dei due verbi suoni più dolce alle orecchie dei soci di Confindustria.
Sommerso. L’emersione dell’economia sommersa suscita accenti convinti e convincenti in D’Amato: ma i risultati dell’azione governativa sono evanescenti.

Ma ben più delle promesse non mantenute, è la crisi delle grandi industrie il cambiamento strutturale, il segno indelebile che questi anni hanno lasciato sul nostro capitalismo. Questo governo rischia di passare alla storia come quello sotto cui c’è stato il più grande processo di deindustrializzazione del paese. Che questo sia avvenuto mentre al vertice di Confindustria c’era un presidente espresso per la prima volta non dalle grandi industrie del Nord, ma dalle piccole e medie industrie, è un fatto che colpisce, ma è sostanzialmente una coincidenza. Sarebbe ingiusto attribuire a D’Amato una colpa che è dell’intera classe dirigente del paese – governo in testa -, dimostratasi incapace di accorgersi di quanto stava succedendo quando c’era forse ancora modo di preparare una reazione.
Un’analoga considerazione si può fare a proposito del polmone finanziario da cui le industrie dipendono. Tremonti è uscito sconfitto dal confronto con le Fondazioni bancarie; Mediobanca è passata sotto il controllo delle banche: è cambiato il mondo, sono cambiati i centri di potere. Ci si chiede se in Viale Astronomia si sia avuta – e si abbia a tutt’oggi – piena coscienza di che cosa questo significhi per le imprese italiane.

D’Amato, in una grande intervista al Sole del 20 febbraio scorso, respinge con vigore la tesi di un declino dell’imprenditoria italiana, e punta invece il dito sul deficit di competitività, un deficit di competitività da superare. Di dubbia utilità ai fini di ottenere da questo governo ciò che non è in grado di dare, tanto meno in questo momento, l’intervento è però un atto di grande significato e importanza per il futuro. Perché testimonia che, per eccessiva che possa essere stata l’adesione a questo governo, è pur sempre il vertice di Confindustria che ha scelto la politica. Una situazione che ci si augura di non dover rimpiangere, se in un domani i rapporti si rovesciassero, e fosse la politica a scegliere il vertice di Confindustria.

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