Nessun “regime” nella parabola tv del Cav., ma tanta distruzione creatrice

giugno 14, 2011


Pubblicato In: Giornali, Il Foglio


Se è vero che il giulivo imbonitore sulla copertina dell’Economist ha “fottuto” un intero Paese, visto che dal 94 ad oggi o ha vinto o ci è andato vicino, è stato di sicuro un rapporto tra adulti consenzienti. Come è stato possibile tante volte con tante persone, contrariamente al noto adagio (che usa il raffinato “fool” invece del carnale “screw”)?
La televisione, è la spiegazione politically correct: con le sue televisioni Berlusconi ha creato gli elettori che l’avrebbero poi eletto.

Dopodiché, siccome la grande maggioranza degli italiani, secondo un’analisi acriticamente ripresa anche dall’Economist, si forma le opinioni politiche sui telegiornali, Berlusconi, conquistando con il potere anche il controllo sulla RAI, ha creato un regime che si autoperpetua. L’analisi è superficiale (gli italiani non erano un popolo individualista e insubordinato?), contraddetta dai fatti (Prodi è stato eletto due volte e disarcionato dai suoi alleati), ma è vero che la televisione è la chiave per capire il successo del Cavaliere: solo che lo è in un senso del tutto diverso. Mentre negli altri Paesi i Governi facevano ordinatamente spazio ai privati, da noi per la difesa del monopolio pubblico Governi cadevano, si coalizzavano partiti e sindacato interno, spalleggiati da pretori “oscuranti” e da una Corte conservatrice: una sorta di “alleanza dei produttori”, sostenuta, anche questa, dall’opinione politically correct. L’arrocco sul monopolio pubblico ha prodotto il duopolio pubblico privato, e lo ha preservato anche quando la sinistra era al potere. Tra il 1996 e il 2001 per consentire l’ingresso di altri operatori le si sono provate tutte: il “disarmo parallelo” (vendere una rete a testa), vendere la RAI, tutto di tutto, tutto di una parte, una parte del tutto. Berlusconi aveva dato agli italiani quello che volevano, una televisione gratuita, coi film e telefilm che voleva, coi colori che voleva: e alternativa alla RAI. L’insieme era un “carnevale moderato, modernità tradizionale, trasgressione apolitica” (Peppino Ortoleva), ma rendeva Berlusconi credibile interprete dell’intolleranza verso partiti e sindacati, verso lo stato imprenditore, verso la cultura dominante che ne è la falsa coscienza: l’hanno votato “per” il suo conflitto, l’hanno assolto dei suoi interessi. Consistenza e resistenza del suo successo dànno la misura di quella intolleranza.

Quello televisivo non è mai stato monopolio in senso economico, e neppure in senso politico: non è stato regime. Che Berlusconi abbia favorito la sua azienda ha rilievo politico, nessuna conseguenza strutturale. Con lui, che liberista non è, i liberisti segnano un punto importante: che il mercato trova in sé i mezzi per sbloccarsi, che l’innovazione ottiene ciò che la regolazione non può e la politica non vuole raggiungere.
Stiamo ancora lamentandoci del duopolio bloccato, e ci troviamo a portata di dito satellite e digitale terrestre, smartphone e social network, video on demand e web.2. Pur con infrastrutture zoppicanti, proprio nel settore delle comunicazioni l’Italia attrae cospicui investimenti (Sky, Vodafone, Swisscom) ed è uno dei più ricchi mercato di sbocco dei prodotti.
Come la fase ascendente della parabola di Berlusconi aveva coinciso con il trionfo della televisione commerciale, così la sua fase discendente si accompagna ad un cambiamento senza precedenti nel modo di trasmettere e consumare informazioni. Il profeta che 16 anni fa incantava proponendo una nuova politica carica di valori tradizionali, ha difficoltà a interpretare la nuova cultura. E siccome lo stesso si può dire del suo antagonista nel duopolio, non si vede capace di guidare questa nuova cultura per recuperare il ritardo di produttività, che Berlusconi ha ereditato ma non ha neppure scalfito. E’ dubbio che possa venire dal fortino dell’antiberlusconismo, fintanto che, invece di pensare con che programmi e con quali alleati mettere in moto questo paese “fottuto”, c’è ancora chi crede che ci sia un regime da abbattere.

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