Mio fratello, la politica e la lunga sfida con il Cavaliere

gennaio 27, 2009


Pubblicato In: Corriere Della Sera, Giornali

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Parla Franco Debenedetti: «Ragioni politiche contrastano spesso con ragioni industriali»

ROMA — Franco Debenedetti confessa che quando ha appreso la notizia il passato gli è scorso

davanti agli occhi come un rapidissimo flashback: «Una carrellata dei suoi successi e anche

delle sue sconfitte, degli entusiasmi che ha suscitato, delle energie che ha catalizzato. Che

vuole, abbiamo lavorato trentacinque anni insieme…».

Fratelli con cognomi diversi.
«Mio padre ha sempre scritto il suo cognome Debenedetti, tutto attaccato. Mio fratello Carlo

ed io siamo registrati all’anagrafe così. Alcuni fratelli di mio padre scrivevano invece il

cognome De Benedetti, staccato. Entrambe le versioni convivono all’interno della stessa

famiglia».

Quindi il vezzo non è suo.
«Io mantengo la versione filologicamente corretta. Mio fratello è più pragmatico».

Anche nel cognome?
«Diciamo che ha grande intuito».

Parla degli affari?
«Non è da tutti partire da un’azienda di 80 persone e diventare uno dei moschettieri alla

testa di uno dei grandi gruppi industriali».

Forse voleva dire «capitani»?

«Allora si chiamavano moschettieri. L’era dei capitani, cosiddetti coraggiosi, è venuta dopo.

Eugenio Scalfari e Carlo avevano già messo in piedi un’impresa editoriale con quello che è

stato il più grande giornale italiano ».

Però la strada del «moschettiere» e quella dei «capitani» si sono incrociate. Ricorda

Colaninno?
«Se allude alla vicenda Omnitel, Carlo ha iniziato quando Colaninno ancora faceva crescere

l’azienda di filtri. L’introduzione della telefonia mobile è stato forse il più grande

successo di mio fratello. Grazie anche alla mente di Elserino Piol».

Cosa lo spinse verso i telefonini?
«Olivetti fece una gara per la telefonia mobile in Germania. Fu persa, ma si fece esperienza e

si costruì l’alleanza, il raggruppamento d’imprese con cui si vinse in Italia ».

Aveva visto giusto?
«Altroché. Come sulla Sme, il primo tentativo di fare una privatizzazione. Come sulla

Mondadori…».

Salvo poi andare a sbattere in entrambi i casi contro Berlusconi.
«Per interposta persona: l’ostacolo vero era Bettino Craxi. Ma la vicenda Mondadori è più

complessa, c’entrano vicende familiari… ».

Poi De Benedetti e Berlusconi hanno rischiato di diventare soci.
«È stato un episodio molto marginale. Management e Capitali è un fondo di private equity in

cui mio fratello ha una quota non di controllo. Fa parte della storia recente, del Carlo

finanziere, non industriale».

Di chi fu l’idea?
«Credo venisse da mio fratello, in un colloquio».

Rarissimo. E perché abortì?
«Ragioni politiche contrastano spesso con ragioni industriali. È impossibile per il

proprietario di Repubblica fare affari con Berlusconi».

Lei che è stato parlamentare della sinistra, se ne fece un’opinione?
«Sì, ma non gliela dico. Comunque, ci sono due zeta».

Suo fratello passa per essere l’inventore delle scatole cinesi.
«Quello era Enrico Cuccia»

Ma lui ha imparato benissimo.
«Quel sistema è stato, a ragione, ampiamente criticato soprattutto in seguito: ma quanto a

rapporto di leva, mio fratello è stato ampiamente superato da chi è venuto dopo».

La finanza, le auto, l’informatica, l’energia, i telefonini. Tutto questo non è stato

dispersivo?
«La critica ha fondamento. Probabilmente se l’operazione sulla Sgb in Belgio fosse andata in

porto, poteva essere uno strumento potente per realizzare i suoi obiettivi di politica

industriale. Il turnaround dell’ Olivetti aveva limiti intrinseci, che si scontravano con i

vincoli tipici dell’Italia. Ha presente l’articolo 18?».

Allora tutti dovevano fare i conti con la politica. Anche suo fratello?

«Parliamo degli anni Ottanta, anni decisivi per la storia di questo Paese. Bruno Visentini era

presidente dell’Olivetti quando Craxi lo chiamò al governo, e lui si dimise. Carlo non ha mai

nascosto le proprie idee,anche allora molto in sintonia con quelle che sosteneva

Repubblica».

Sarò più chiaro: ha avuto un rapporto organico con la sinistra?
«Organico non certo. Ma era a favore dell’apertura al Pci. Si vedeva sovente con Tonino

Tatò».

Crede davvero che abbia lasciato per ragioni anagrafiche?
«Non lo credo affatto. Mio fratello sta benissimo. È un uomo deciso nelle proprie opinioni.

Non ci farà mancare i suoi commenti ».

Allora c’è un nesso fra la sua decisione e i rigurgiti statalisti?
«Mio fratello non solo ha fatto cose importanti, ma ha anche suscitato energie, coraggio di

fare. Ora sarà più difficile, non tanto per i tempi, terribili in sé, ma per l’ondata di

statalismo che renderà più arduo per tutti uscire dalla crisi. Serviranno anni per

liberarsene. Mio fratello sta bene, ma a 74 anni non credo pensi a un’altra campagna del

Belgio».

Che cosa cambierà nell’editoria?
«Carlo resterà nella Fieg. In conferenza stampa ha detto che il nuovo contratto dei

giornalisti deve rappresentare una forte discontinuità. Mi dica: la sua decisione frena o

accelera il cambiamento?».

Sergio Rizzo

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