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Meritocrazia da riscoprire

Pubblicato il 22/08/1995 @ 13:01 in Giornali,Il Sole 24 Ore


La piena accettazione dell’economia di mercato è stato il fatto più significativo degli anni Ottanta; abbandonato il mito dell’egualitarismo (lo ha fatto anche D’Alema al congresso del Pds); si tratta ora di far rivivere un altro ideale che era stato messo in ombra negli ultimi decenni, quello della meritocrazia. La meritocrazia promuove la giustizia sociale, perché ricompensa i più abili anziché i più fortunati; incrementa l’efficienza; tratta gli individui come tali e non come rappresentanti di gruppi sociali; è la chiave per una società più morale e più illuminata: queste le tesi di Adrian Wooldridge (Meritocrazia e la società senza classi , Social Market Foundation, Londra).

Due sono le principali obbiezioni che si muovono a un ordine sociale basato sulla meritocrazia. La prima, che renderebbe permanenti le stratificazioni sociali, a maggior ragione se queste, come sostengono Murray e Herrenstein nel loro famoso e ‘scandaloso’ The Bell curve, fossero basate su ragioni genetiche. Ma la stratificazione sociale non è conseguenza della meritocrazia, quanto del suo opposto, il successo della classe media nel sottrarsi ai processi di selezione basati sul merito. I figli della classe media riescono di regola meglio a scuola non perché sono più intelligenti, ma perché i loro genitori li mandano nelle scuole migliori e trasmettono loro l’istruzione come valore: nei casi peggiori gli `comprano’ un titolo di studio.
La seconda obbiezione, in qualche modo opposta alla prima, è che la meritocrazia, esasperando la competizione tra individui, aumentandone la mobilità sociale, acuirebbe il loro senso di insicurezza, distruggerebbe valori e legami tradizionali. Ma la meritocrazia non agisce nel vuoto sociale, presuppone piuttosto istituzioni, in primo luogo un sistema scolastico perfettamente funzionante, e questo a sua volta si regge su tradizioni, senso di identità collettiva e obbiettivi condivisi.
La terza obbiezione è che la meritocrazia produrrebbe inevitabilmente una classe inferiore: ma il test di ogni meritocrazia è anche la sua capacità di provvedere adeguatamente ai meno fortunati; se usa in modo più razionale le risorse umane, produrrà anche più risorse materiali per farvi fronte.
Le ragioni su cui poggia la meritocrazia hanno avuto, nel tempo, declinazioni diverse. Dapprima come realizzazione della libertà individuale, fondamento della società liberale dell’Ottocento. Poi, parallelamente allo svilupparsi dell’economia di mercato, come mezzo più efficiente per utilizzare tutti i talenti che la natura distribuisce in modo casuale: obbiettivo che l’evoluzione da un sistema economico basato sulla produzione a uno basato sull’informazione rende ancora più cogente.
L’esame di maturità è diventato uno stanco rituale, un «inutile passaporto» come dice Mario Deaglio: sono considerazioni funzionali che impongono di sostituirlo con criteri più selettivi. Dove si deve aggiungere che la maggiore selettività deve necessariamente accompagnarsi a un’offerta di sentieri formativi articolata su un più ampio ventaglio di proposte: l’abbandono dell’egualitarismo significa anche l’abbandono del tabù dell’uniformità, che costringe e seleziona tutti gli individui all’interno di un limitato numero di percorsi scolastici. La meritocrazia per gli allievi deve accom-pagnarsi a quella degli istituti (e degli insegnanti).
Oggi che l’economia di mercato regna incontrastata, le ragioni della meritocrazia sono di ordine morale: consentire agli individui di esprimersi compiutamente nell’ambito collettivo cui per scelta o per estrazione appartengono, spingerli a sviluppare i propri talenti, la pienezza della propria personalità. L’economia di mercato necessariamente produce diseguaglianze: il modo per renderle accettabili è quello di assicurare che nessuno sia escluso dalla possibilità di migliorare la propria posizione di partenza. Dare a tutti la possibilità di accedere all’istruzione, offrire un ampio ventaglio di percorsi scolastici in cui procedere sulla base di criteri quanto più oggettivi possibili, diventa un imperativo morale.

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